Il condomino può usucapire la quota degli altri condomini, senza che sia necessaria una vera e propria interversione del titolo del possesso, mediante un comportamento oppositivo, ossia esercitando il potere di fatto sul bene in termini di esclusività. Tuttavia, a tale medesimo fine, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, occorrendo altresì che colui il quale opponga il proprio possesso esclusivo, alleghi e dimostri di aver goduto del bene stesso in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus senza opposizione per il tempo utile ad usucapire.

 

Tribunale Padova, Sezione 1 civile

Sentenza 21 agosto 2012, n. 2211

CONDOMINIO – CONDOMINIO – PARTI COMUNI – POSSIBILITÀ PER IL SINGOLO CONDOMINO DI USUCAPIRE LA QUOTA DEGLI ALTRI – PRESUPPOSTI – ESERCIZIO DEL POTERE DI FATTO SUL BENE IN TERMINI DI ESCLUSIVITÀ – CONTENUTO

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI PADOVA
PRIMA SEZIONE CIVILE
Il Giudice
Nella Funzione di Giudice Unico
Dott. A.G. Santel ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di 1° grado, iscritta a ruolo il 15-6-09, al n. 7828-09, promossa con atto di citazione, notificato il 16-6-09, Cron. n. 8816 Unep di Padova
Da
Sc.Iv., (…) e Bo.Ag., (…), rappresentate e difese, come da mandato a margine dell’atto di citazione, dall’avv. Lu.Pr., con domicilio eletto presso il Suo Studio, in Padova, Via (…)
Attrici
Contro
Im. S.r.l., (…), rappresentato e difeso come da mandato in calce a atto di citazione notificato, dall’avv. Ro.Mo., con domicilio eletto presso il suo Studio in Padova, Via (…)
Convenuto
E
Ma.Ni. (…), Gr.So. (…) e Za.An. (…)
Chiamati in causa contumaci
OGGETTO: altri rapporti condominiali.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE
Con atto di citazione, notificato il 16-6-09, le sigg.re Sc. e Bo. esponevano di essere proprietarie di due unità immobiliari, facenti parte del Condominio (…), e che uno dei condomini, Im. S.r.l. aveva effettuato opere (in particolare quelle conseguenti la (…), Comune di Maserà, e di cui alla denuncia di inizio attività dell’1-7-00 Prot. n. (…)), sulla cosa di proprietà condominiale in lesione dell’art. 1102 c.c.
Nell’atto introduttivo al giudizio si chiedeva che venisse dichiarata e accertata l’illegittima alterazione della cosa comune, con condanna della convenuta alla demolizione delle opere realizzate in violazione dell’art. 1002 c.c. e al ripristino dello status quo ante (come risultava indicato nei documenti n. 51), 52), 53) prodotti unitamente all’atto di citazione), e/o al ripristino dello status quo ante con previsione delle opere da eseguire a tal fine.
Si costituiva la convenuta la quale si opponeva all’accoglimento delle istanze attoree, contestandone la fondatezza ed eccependo la sua carenza di legittimazione passiva in relazione al posizionamento del gazebo, in quanto lo stesso era stato installato e utilizzato dal conduttore, ditta individuale (…).
L’Im. chiedeva, altresì, l’accertamento che il parcheggio prospiciente al negozio le era stato venduto in piena proprietà e che, comunque, costituiva area di pertinenza esclusiva, e che, quindi, doveva ritenersi legittimo sia il comportamento della ditta Ve. sia la realizzazione delle scale in quanto posizionate sulla sua porzione perché trasferitale a seguito dei rogiti notarili.
Nella comparsa di costituzione e di risposta la convenuta chiedeva, altresì, previa instaurazione del contraddittorio con tutti i proprietari del condominio, nonché previa ctu per identificare l’area detta e provvedere al frazionamento del mappale su cui insistono le scale e la discesa per disabili, l’accertamento della sua intervenuta usucapione con emissione di pronuncia che tenga luogo del rogito notarile di trasferimento di proprietà.
In via riconvenzionale l’Im. rivolgeva istanza di condanna delle attrici ex art. 96 c.p.c., al pagamento per colpa grave e dolo al risarcimento del danno a suo favore della somma Euro 15.000,00 o altra somma maggiore o minore ritenuta di giustizia. Integrato il contraddittorio nei confronti degli altri condomini individuati in (…) e successivamente anche in (…), nessuno dei chiamati in causa ritualmente evocati si costituiva.
Il G.I. autorizzava il deposito di memorie, ex art. 183 c.p.c. e relativamente alle domande riconvenzionali ex adverso proposte le attrici, con memoria ex art. 183, n. 1, c.p.c. chiedevano il loro integrale rigetto nonché l’accertamento che la convenuta aveva posto in essere comportamenti assimilabili alla responsabilità aggravata prevista dall’art. 96 c.p.c., con sua condanna secondo la previsione della stessa norma e nella quantificazione di cui all’art. 1126 c.c.
Disposta CTU, rivolta a: l)acquisire a) domanda e relativa documentazione relativa all’attività edilizia svolta dalla Im., DIA 41-00, denuncia inizio attività Comune di Maserà, Prot. n. (…) dell’1-7-00; b) domanda e relativa documentazione depositata dal geom. El. per conto del costruttore Co. l’8-2-1973, al Comune di Maserà, in relazione alla variante licenza edilizia n. 53-1974; c) atti di acquisto degli immobili delle attrici e della convenuta Im.; 2) descrivere lo stato dei luoghi, con indicazione delle parti comuni, in relazione ai diversi atti di acquisto, (in particolare del cortile antistante il Condominio indicandone la sua prevalente destinazione) e dell’entità dell’occupazione, dei manufatti della convenuta (scala e gazebo).
Depositato l’elaborato peritale e rigettata l’istanza di prova testimoniale richiesta dalle attrici, il Giudice, ritenendo la causa matura per la decisione e, adeguatamente, istruita, fissava l’udienza, del 10-5-12, per la precisazione delle conclusioni. In quella data le parti precisavano le proprie conclusioni come in atti e, quindi, depositavano comparse conclusionali e repliche.
Poste tali premesse, occorre, quale antecedente logico necessario esaminare su quali domande attoree la convenuta possa essere considerata legittimo contraddittore e su quali sia, invece, come eccepito, priva di legittimazione passiva. Si precisa che la domanda va proposta nei confronti del proprietario quando contenga una pretesa rivolta all’accertamento negativo di un diritto reale oppure comporti una richiesta di modificazione dello stato dei luoghi; altrimenti, qualora l’azione sia diretta alla mera rimozione di una situazione lesiva o a fare cessare un’attività ed abbia, dunque, natura personale, legittimato passivo è soltanto il locatario quale autore delle immissioni (Cassazione, 12 luglio 2006, n. 15871; conformi, Cass. n. 4086/1997; Cass. n. 2598/1997 e Cass. n. 74/1977).
Il proprietario Im., quindi, risulta legittimato, alla luce del “petitum” contenuto nella domanda attorea, posta la natura reale della pretesa azionata. Per quanto attiene al merito, si precisa che la CTU ha accertato che non vi è alcun titolo d’acquisto che abbia in tutto in parte trasferito all’Im. la proprietà esclusiva del piazzale o di parte di esso.
Né è stato dalla convenuta offerto alcun elemento per vincere la presunzione di cui all’art. 1117 c.c.
Nell’elaborato peritale il CTU ha concluso affermando che le opere effettuate hanno determinato un mutamento dello stato dei luoghi e che l’occupazione del gazebo determina un’alterazione della destinazione d’uso della parte comune. Il C.T.U., per la natura tecnica delle sue indagini, si muove (sul piano istruttorio) sulla base di competenze e conoscenze che i difensori (e lo stesso giudice) per definizione non hanno.
Il suddetto mezzo di indagine non può essere disposto al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato dal giudice qualora la parte tenda con esso a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerta di prove, ovvero a compiere un’attività esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.
Ai sopraindicati limiti è consentito derogare unicamente quando l’accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con il ricorso a specifiche cognizioni tecniche (cfr., Cass. n. 8395 del 2000, n. 3990 del 2006, n. 3374 del 2008), o comunque, quando l’accertamento incontrerebbe altrimenti rilevanti difficoltà pratiche (cfr., Cass. n. 6055 del 1988).
Si tratta di una giurisprudenza assolutamente condivisibile, che concilia due distinti e ineludibili dati della realtà.
Da un lato va rispettato il principio cardine dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., che invece sarebbe clamorosamente violato se il giudice, raggiungesse la prova di fatti storici semplici, che i difensori ben potevano introdurre nel processo nelle forme consacrate dal codice di rito civile.
Da altro lato occorre prendere atto che solo le competenze del perito possono individuare i dati tecnici necessari per la risposta al quesito.
Per questo è facilmente condivisibile quanto stabilito dalla Cassazione, secondo la quale sussiste un obbligo di motivazione puntuale e dettagliata, sotto il profilo tecnico, solo se la decisione del giudice dissente dalla relazione del CTU (cfr., Cass. n. 12304 del 2003).
Va, altresì, confermato, per quanto possa occorrere, il rigetto dell’istanza di ammissione della prova per testi dedotta dall’Im.
Se è vero, infatti, che il condomino può usucapire la quota degli altri condomini senza che sia necessaria una vera e propria interversione del titolo del possesso mediante comportamento oppositivo, esercitando il potere di fatto sul bene in termini di esclusività è pur vero che, a tal fine, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, occorrendo altresì che colui il quale opponga il proprio possesso esclusivo, alleghi e dimostri di aver goduto del bene stesso in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus senza opposizione per il tempo utile ad usucapire (Cass. n. 13747 del 2002).
Ne consegue che sono superflue e irrilevanti le prove per testi richieste (così come formulate) e va rigettata l’istanza di rimessione in istruttoria.
Secondo l’assunto della convenuta la sua condotta, concretasi nell’utilizzo dell’area sia attraverso il posizione di scale per accedere alla sua proprietà sia nel parcheggiare con una certa frequenza le auto sia ancora nell’occupare lo spazio con l’installazione del gazebo avrebbe concretato un comportamento atto a consentirne l’usucapione. Parte attorea ha eccepito che detto comportamento costituisce una sorta di abuso, impedendo agli altri condomini di partecipare all’utilizzo dello spazio comune, ostacolandone il libero e pacifico godimento, ed alterando l’equilibrio tra le concorrenti ed analoghe facoltà dei comproprietari.
Ai sensi dell’art. 1102 c.c.: “ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto (omissis).
Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso”. Il mutamento del titolo, previsto dalla norma citata, deve concretarsi in atti integranti un comportamento durevole, tale da manifestare un possesso esclusivo con animo domini, incompatibile con il permanere del compossesso altrui sulla stessa cosa e non, soltanto, in atti di gestione della cosa comune, consentiti al singolo compartecipe, ovvero in atti tollerati dagli altri (art. 1141 c.c., cfr. Cass. Sez. II, 23 ottobre 1990, n. 10294).
L’Im., nel dedurre l’usucapione della cosa comune, avrebbe dovuto offrirsi di fornire la prova di aver sottratto la cosa all’uso comune per il periodo utile all’usucapione e, cioè, avrebbe dovuto dimostrare una condotta univocamente diretta a rivelare che si è verificato un mutamento di fatto nel titolo del possesso. Nel caso di specie, invece, la formulazione dei capitoli di prova nella loro genericità ed incompletezza non sono comunque accertativi di atti, univocamente, rivolti contro i compossessori, tali da rendere riconoscibile a costoro l’intenzione di non possedere più come semplice compossessore, ma come possessore esclusivo, non essendo rivolti a consentire di dimostrare l’esternazione di una chiara ed univoca volontà di escludere dall’area gli altri condomini.
Non sarebbe, pertanto, stato sufficiente che dall’istruttoria fosse emerso che gli altri condomini sia siano astenuti dall’uso della cosa, in quanto sarebbe stato indispensabile che la dimostrazione di aver goduto dell’area in questione in modo, assolutamente, inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca intenzione di possedere uti dominus e non più uti condomini (cfr. Cass, n. 1260 del 2002).
Occorre, infatti, distinguere l’ambito di operatività delle due disposizioni, di cui all’art. 1102 c.c., chiarendo che, ai sensi del primo comma di tale articolo, l’uso della cosa comune da parte di ciascun partecipante è legittimo, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne, parimenti, uso secondo il loro diritto, in quanto il mancato rispetto, dell’una o dell’altra delle due condizioni, si configura come fatto illecito.
Premesso, invero, come principio di diritto pacifico che la compromissione, da parte di un comproprietario, dell’uso della cosa comune, da parte degli altri comproprietari, mediante una estensione del suo diritto in danno degli altri partecipanti (art. 1102, secondo comma, prima parte, c.c.) si configura come fatto illecito, ai sensi dell’art. 1102 primo comma c.c., si deve subito aggiungere che questa conclusione non può essere infirmata dalla previsione del secondo comma dell’articolo citato, secondo cui l’estensione, del diritto del partecipante, può comportare il mutamento del titolo del possesso (e quindi l’usucapione della cosa comune, nel concorso di tutti i requisiti di legge a tal fine necessari).
Tale disposizione si limita a prevedere la nuova situazione di fatto, determinata dal mutamento del compossesso in possesso esclusivo, ed a prospettare il possibile effetto, ad essa conseguente, dell’acquisto per usucapione delle quote degli altri compartecipi, ma non elide certo la portata precettiva del primo comma dell’art. 1102 c.c., finalizzato a regolare l’uso della cosa comune tra i comproprietari. In altri termini, l’eventualità che il comportamento del comproprietario, che esclude dall’uso della cosa comune gli altri partecipanti, possa configurarsi come elemento, idoneo all’acquisto delle quote altrui per usucapione, non determina il venir meno della sua qualificazione come condotta integrativa di fatto illecito ai sensi del primo comma dell’art. 1102 c.c. fino a quando resta in vigore il regime di comunione (cfr. Cass. n. 13424 del 2003).
L’Im. ha commesso un abuso della propria situazione giuridica, poiché ha ecceduto nella quota di godimento a lei spettante, in quanto il suo diritto è limitato dal diritto degli altri partecipanti alla comunione.
L’art. 1158 c.c. pone, tra gli elementi costitutivi dell’usucapione, il protrarsi continuativo del possesso per il previsto periodo, onde la parte che intende farsela riconoscere è onerata della prova di tale continuità ed il giudice, a sua volta, tale continuità deve accertare in quanto condizione per l’accoglimento della domanda o dell’eccezione. Al possessore, il quale deduce, l’intervenuta usucapione giova la presunzione di possesso intermedio posta dall’art. 1142 c.c. – per la quale si determina una inversione dell’onere della prova, non essendo tenuto a dimostrare la continuità del possesso. La controparte, che neghi essersi verificata l’usucapione è tenuta a dimostrarne l’intervenuta interruzione.
Ove il difetto della continuità del possesso risulti ex actis dalla produzione stessa della parte che quella continuità invoca, il giudice, pur ove l’interruzione non sia stata dedotta dalla controparte ed anche nella contumacia di questa, non può esimersi dal rilevare il difetto di una condizione di accoglibilità dell’azione risultante appunto ex actis.
In tal caso, non si esorbita, dall’ambito della potestas iudicandi in violazione dell’art. 112 c.p.c. rilevando un fatto che avrebbe dovuto formare oggetto di eccezione ad iniziativa della controparte interessata, bensì si limita a constatare il difetto, risultante appunto dagli stessi elementi di giudizio fornitigli dalla parte interessata, di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda o dell’eccezione – in altri termini, non pone a fondamento della decisione reiettiva della domanda, o dell’eccezione di usucapione la prova di un fatto interruttivo della continuità del possesso ma l’originario difetto di una valida allegazione di tale continuità (Cass. n. 13921 del 2002).
Si premette, per quanto possa occorrere, che la rilevanza giuridica della licenza o concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato richiedente o costruttore, senza estendersi ai rapporti tra privati, regolati dalle disposizioni dettate dal codice civile e dalle leggi speciali in materia edilizia, nonché dalle norme dei regolamenti edilizi e dei piani regolatori generali locali. Ne consegue che, ai fini della decisione delle controversie tra privati derivanti dalla esecuzione di opere edilizie, sono irrilevanti tanto la esistenza della concessione, quanto il fatto di avere costruito in conformità alla concessione, non escludendo tali circostanze, in sé, la violazione dei diritti dei terzi di cui al codice civile e agli strumenti urbanistici locali (cfr., in tal senso, Cass. sentenza n. 12405 del 28/05/2007).
Dalla CTU è emerso che in seguito all’intervento edilizio di cui alla D.I.A. n. 41-2000, vi è stato un mutamento della situazione preesistente con un’occupazione diversa e maggiore dell’area condominiale.
Si precisa, per quanto possa occorrere che la domanda delle attrici deve intendersi limitata al ripristino dello status quo ante come risultava indicato nei documenti n. 51), 52), 53) prodotti unitamente all’atto di citazione.
Risulta, peraltro, inammissibile la richiesta delle attrici affinché il Giudice preveda le opere da eseguire “a tal fine; stabilendo modalità e costi e tempi di esecuzione del ripristino dello status quo ante, indicando ditta esecutrice e controllo da parte di Organo alle dirette dipendenze del Giudice emittente la sentenza”, sia perché tardivamente formulata sia perché relativa ad una fase esecutiva solo eventuale e comunque disciplinata dall’art. 612 c.p.c.
Inoltre la circostanza che il piazzale non risulterebbe più occupato parzialmente né occasionalmente dal conduttore della convenuta (che deve ritenersi non contestata ex art. 116 c.p.c.), esclude che la pronuncia giudiziale sul punto presenti, per le parti, un’utilità giuridicamente rilevante.
Secondo il costante orientamento della Cassazione (cfr. Cass. Civ., sez. III, 1 giugno 2004, n. 10478; Cass. Civ., Sez. Un., 28 settembre 2000, n. 1048), la pronuncia di cessazione della materia del contendere costituisce infatti, nel rito contenzioso ordinario davanti al giudice civile (privo, al riguardo, di qualsivoglia, espressa previsione normativa, a differenza del rito amministrativo e di quello tributario), una fattispecie creata dalla prassi giurisprudenziale e applicata in ogni fase e grado del giudizio, da pronunciare con sentenza, d’ufficio o su istanza di parte, ogniqualvolta non si possa far luogo alla definizione del giudizio per rinuncia agli atti o per rinuncia alla pretesa sostanziale o per il venir meno dell’interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio stesso.
In particolare, si deve osservare che la cessazione della materia del contendere, che costituisce il riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite, per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interessi diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento della situazione evocata in controversia, tale da eliminare totalmente ed in ogni suo aspetto la posizione di contrasto tra le parti, e da far venir meno del tutto la necessità di una decisione sulla domanda originariamente proposta (cfr. in tal senso: Cass. Civ., Sez. III, 1 aprile 2004, n. 6395; Cass. Civ., Sez. III, 1 aprile 2004, n. 6403; Cass. Civ., Sez. Un., 26 luglio 2004, n. 13969; Cass. Civ., Sez. III, 8 giugno 2005, n. 11962).
Le spese del processo, concluso con una dichiarazione di cessazione della materia del contendere, vanno disciplinate attraverso l’individuazione del soggetto che sarebbe stata soccombente nel caso in cui non si fosse verificato l’evento sopravvenuto; tale valutazione va svolta secondo il principio di causalità (Cass. 7182/00). L’affermazione di responsabilità processuale aggravata della parte soccombente, secondo la previsione dell’art. 96, 1 comma, c.p.c., richiede la sussistenza di tre presupposti:
1) il carattere totale e non parziale della soccombenza;
2) l’elemento soggettivo, consistente nell’avere l’opponente agito con mala fede (dolo) o colpa grave (cioè consistente nella consapevolezza, o nell’ignoranza derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle proprie tesi, ovvero del carattere irrituale o fraudolento dei mezzi adoperati per agire o resistere in giudizio);
3) l’elemento oggettivo, rappresentato dalla dimostrazione della concreta ed effettiva esistenza di un danno subito dalla controparte come conseguenza diretta ed immediata di un simile comportamento, ciò che si ha quando appunto controparte deduca e dimostri la concreta ed effettiva esistenza di un danno in conseguenza di detto comportamento processuale, sicché il giudice non può liquidare il danno, neppure equitativamente, se dagli atti non risultino elementi atti ad identificarne concretamente l’esistenza. Tuttavia, il danno nella sua concretezza deve essere comunque provato, e tale esigenza probatoria è ineludibile, non potendo nemmeno la liquidazione equitativa sostituire le deficienze istruttorie sull’esistenza (e non l’entità) del medesimo (cfr., in tal senso, Tribunale Modena, sez. II, 13 aprile 2012, n. 620).
Deve rilevarsi che recentemente le Sezioni Unite della Corte hanno affermato che, ai fini del riconoscimento del danno da responsabilità aggravata il giudice “può fare riferimento a nozioni di comune esperienza, tra cui il pregiudizio che la controparte subisce per il solo fatto di essere stata costretta a contrastare un’ingiustificata iniziativa dell’avversario, non compensata, sul piano strettamente economico, dal rimborso delle spese e degli onorari del procedimento stesso, liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente” (Cass. sez. un. n. 3057 del 2009). Non si tratta di riconoscere un danno in re ipsa, il che sarebbe contrario alla logica della necessaria individuazione del danno come danno – conseguenza, bensì di prendere atto, secondo nozioni di comune esperienza, che il subire iniziative giudiziarie temerarie o resistenze temerarie a pretesa giudiziali, comporta, per il fisiologico “scarto” fra la liquidazione delle spese giudiziali – che obbedisce a tariffe predeterminate e, per gli onorari, contempla una discrezionalità del giudice nella liquidazione, sia pure sulla base di elementi del caso concreto – e quanto normalmente riconosciuto nel rapporto fra cliente e difensore, la sicura verificazione a carico della parte vittoriosa, che pure si veda liquidare le spese giudiziali, di una perdita economica per il di più che avrà riconosciuto al difensore.
In questa ottica, una volta riconosciuta la temerarietà della lite – il che in sostanza deve affermarsi con riferimento alla motivazione adottata nella sentenza impugnata -, in affermarsi con riferimento alla motivazione adottata nella sentenza impugnata -, in mancanza di dimostrazione di concreti e specifici danni patrimoniali conseguiti al suo svolgimento, è giustificabile che il giudice, avuto riguardo a tutti gli elementi della controversia, ed anche alle spese giudiziali che concretamente competerebbero alla parte vittoriosa, attribuisca alla parte vittoriosa il riconoscimento di un danno patrimoniale procedendo alla sua liquidazione in via equitativa.
Va, poi, considerato che l’art. 96 c.p.c., prevede che debba essere riconosciuto il risarcimento non del danno, bensì dei danni.
L’ampiezza della formulazione – se si considera che nel tessuto del Codice Civile, nella disciplina dell’illecito aquiliano, è presente la distinzione fra il danno patrimoniale e quello non patrimoniale, come definita dalle Sezioni Unite nella nota sentenza n. 26972 del 2008 giustifica che il legislatore processuale del Codice del 1940 abbia inteso consentire anche la liquidazione del danno non patrimoniale, il che, alla luce degli insegnamenti delle Sezioni Unite, appare giustificato anche nella prospettiva che il diritto di azione e di difesa in giudizio è sicuramente un diritto costituzionale fondamentale. Risulta, dunque, possibile ritenere che, riconosciuta la temerarietà della lite, un danno di natura non patrimoniale sofferto dalla parte vittoriosa si verifichi sotto il profilo di una lesione dell’equilibrio psico-fisico, come ha ritenuto un precedente di questa Corte, affermando che il danno rilevante ai sensi dell’art. 96 c.p.c., può desumersi in base a “nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost., comma 2) e della L. n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario, e, per di più, non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa” (Cass. n. 24645 del 2007; v. anche Cass. n. 10606 del 2010 e 12 ottobre 2011 n. n. 20995).
Di contro, nel caso di specie, pur risultando l’Im. totalmente soccombente, non si ravvisa nella sua condotta quella particolare fattispecie di illecito che si verifica quando il diritto di agire e di resistere in giudizio assumono i caratteri dell’abuso (cfr., in tal senso Tribunale Varese, 8 marzo 2012). Le spese anche di CTU seguono la soccombenza, anche virtuale.
P.Q.M.
Il G.I., definitivamente pronunciando,: accertata l’inesistenza di un interesse, giuridicamente protetto, in capo alle ricorrente, nonché l’insussistenza di una qualsiasi utilità nell’emanazione di una pronuncia, risultando non più attuale l’occupazione della parte comune con il gazebo, dichiara sul punto la cessazione della materia del contendere.
Accerta e dichiara che le opere realizzate dalla Soc. Im. S.r.l. e di cui ai documenti prodotti in causa, ed in particolare quelle conseguenti la DIA41/00, Comune di Maserà e di cui alla denuncia di inizio attività dell’1-7-00 Prot. n. (…), sono state eseguite sulla cosa di proprietà condominiale in lesione dell’art. 1102 c. c.; in accoglimento della domanda attorea, viste le risultanze di cui alla CTU accerta e dichiara l’illegittima alterazione della cosa comune, condanna la convenuta, in persona del legale rappresentante pro-tempore, alla demolizione delle opere realizzate in violazione dell’art. 1002 c.c. e al ripristino dello status quo ante come risultava indicato nei documenti n. 51), 52), 53) prodotti unitamente all’atto di citazione, a sua integrale cura e spese. Respinge tutte le altre domande.
Condanna l’Im. S.r.l. in persona del suo legale rappresentante pro-tempore a rifondere alle attrici le spese di causa, quantificate in Euro 9.937,07, comprese anticipazioni e spese generali oltre IVA e CPA, se dovute, e CTU.
Così deciso in Padova, il 17 agosto 2011.
Depositata in Cancelleria il 21 agosto 2012.

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