Corte di Cassazione, Sezione II, sentenza 18 marzo 2010, n. 6550

L’uso della cosa comune da parte di un condomino a vantaggio di un bene di sua proprietà esclusiva, estraneo al condominio, costituisce un abuso, non solo quando alteri la destinazione della cosa, ma anche quando si risolva in un’attività corrispondente all’esercizio di una servitù, poichè lo stesso si risolve nell’imposizione di fatto di una limitazione di carattere reale al diritto di proprietà, che non rientra tra le facoltà del partecipante alla comunione, ma è consentita unicamente con il consenso di tutti i condomini. Né valgono ad escludere l’abuso il riferimento ad un utilizzo conforme a quello già esistente della cosa comune o non idoneo al suo asservimento, laddove lo stesso non sia riconducibile a mera tolleranza o connotato da una utilità a vantaggio di un altro fondo del tutto transitoria, ovvero ad un mero utilizzo più intenso del bene comune ed al mancato impedimento dell’uso paritetico da parte degli altri condomini, giacché il diritto di ciascun comproprietario di trarre dal bene comune un’utilità anche maggiore e più intensa di quella eventualmente goduta in concreto dagli altri comproprietari, non può sconfinare nell’esercizio di
una servitù.

Testo integrale:

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Presidente

Dott. ODDO Massimo – rel. Consigliere

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.A., G.R., Z.F. e B.G. rappresentati e difesi in virtù di procura speciale in calce al ricorso dall’avv. Bertelo Roberto del Foro di Verbania e dall’avv. Brandi Rita, presso la quale sono elettivamente domiciliati in Roma, alla via Alberga, n. 45;

– ricorrenti – contro

S.C. e N.O. – rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del controricorso dall’avv. Sicher Francesco del Foro di Verbania e dall’avv. Stefano Giove, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma, al viale Regina Margherita, n. 278;

– controricorrenti – e O.F. e C.D. – elettivamente domiciliati in Torino, alla via Bligny, n. 15, presso l’avv. Spitale Antonella;

– intimati – e sul ricorso notificato il 7 gennaio 2005 da:

S.C. e N.O. – rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del controricorso dall’avv. Francesco Sicher del Foro di Verbania e dall’avv. Stefano Giove, presso il quale sono elettivamente domiciliati in Roma, al viale Regina Margherita, n. 278;

– controricorrente ricorrente incidentale –

contro

P.A., G.R., Z.F. e B.G. – elettivamente domiciliati in Roma, alla via Alberga, n. 45, presso l’avv. Rita Brandi, presso la quale sono;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 998 del 23 giugno 2004 – notificata il 23 settembre 2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27 gennaio 2010 dal Consigliere dott. ODDO Massimo;

uditi per i ricorrenti l’avv. Rita Brandi e per i controricorrenti l’avv. Stefano Giove;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto notificato il 20 ottobre 1990, S.C. ed N.O., proprietari di un appartamento nell’edificio condominale “Ex Convitto” di (OMISSIS), convennero P.A., B.G., G.R., Z.F., C. L., P.E., O.F. e C.D., condomini del medesimo edificio e proprietari di fondi ad esso limitrofi, davanti al Tribunale di Verbania e domandarono la declaratoria dell’inesistenza di una servitù di elettrodotto e di altra di passo carraio sul cortile condominiale in favore dei fondi dei convenuti estranei al condominio e la condanna degli stessi alla rimozione delle condutture elettriche, interrate nell’area comune per l’esercizio della prima, ed al risarcimento dei danni.

Si costituirono il B., il G., lo Z. ed il C. e chiesero il rigetto delle domande, deducendo l’acquisto della servitù di passo carraio per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, nonché, in caso di accoglimento della domanda di rimozione delle condutture elettriche, la condanna degli attori all’eliminazione di un collegamento elettrico anche da essi realizzato nel terreno condominiale.

Nella contumacia della P.A., del P.E., dell’ O. e del C.D., il Tribunale con sentenza del 6 dicembre 2001, accolse in parte le domande degli attori e dichiarò l’inesistenza di entrambe le servitù da essi lamentate sul cortile condominiale ed ordinò ai convenuti la rimozione dei cavi elettrici e l’astensione dal passaggio nelle aree comuni per accedere ai loro fondi.

La decisione, gravata dalla P.A., dal G., dallo Z. e dal B., venne confermata il 23 giugno 2004 dalla Corte di appello di Torino, che respinse l’impugnazione.

Osservarono i giudici di secondo grado che la facoltà del condomino di fare uso della cosa comune non consente anche l’utilizzazione di essa al servizio di una sua proprietà esclusiva, perché ciò comporta inevitabilmente l’imposizione di una servitù, che deve essere consentita dalla totalità dei condomini.

La P.A., il G., lo Z. ed il B. sono ricorsi con quattro motivi per la cassazione della sentenza, il S. e la N. hanno resistito con controricorso, proponendo contestuale ricorso incidentale, e gli intimati O. e C.D. non hanno svolto attività in giudizio.

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno dichiarati inammissibili il controricorso ed il contestuale ricorso incidentale notificati il 7 gennaio 2005, perché entrambi proposti dopo il decorso del termine di quaranta giorni dall’ultima notifica del ricorso in data 23 novembre 2004 (cfr.: art. 369 c.p.c., comma 1, e dell’art. 370 c.p.c., comma 1), e, il secondo, anche di quello di sessanta giorni dalla notifica della sentenza in data 23 settembre 2004 (cfr.: art. 325 c.p.c., comma 2, e art. 326 c.p.c., comma 1).

Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità del procedimento e della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., non essendo stati convenuti nel giudizio quali contraddittori necessari le comproprietarie dei fondi del G., del B. e dello Z., che costituivano contraddittori necessari rispetto alle domande degli attori, e, in grado di appello, il convenuto C..

Il motivo è infondato.

L’actio negatoria servitutis, riconosciuta al proprietario per far dichiarare l’inesistenza di diritti affermati da altri sulla cosa propria, quando ha motivo di temerne pregiudizio, e/o ad ottenere la cessazione di eventuali turbative o molestie, non comporta un litisconsorzio necessario nell’ipotesi in cui il diritto affermato da altri sia una servitù ed il fondo dominante appartenga pro indiviso a più proprietari, giacché la sentenza emessa all’esito del giudizio, salvo che sia domandata anche la demolizione di manufatti o di costruzioni realizzati su detto fondo per l’esercizio della servitù, non viene ad incidere su di una situazione, la cui inscindibilità e comunanza alla pluralità dei proprie tari ne impedisca l’esecuzione (cfr.: cass. civ., sez. 2′, sent. 18 dicembre 2007, n. 26653; cass. civ., sez. 2′, sent. 7 giugno 2002, n. 8261).

La domanda degli attori di declaratoria dell’inesistenza delle servitù di elettrodotto e di passo carraio sul cortile condominiale a favore dei fondi limitrofi non imponeva, quindi, la partecipazione al giudizio delle comproprietarie di detti fondi, né la stessa era necessaria per l’esecuzione della richiesta condanna dei convenuti alla rimozione delle condutture elettriche interrate nell’area asservita, e neppure la citazione in secondo grado del convenuto non appellante, rispetto al quale la decisione di primo grado era divenuta definitiva a seguito della sua mancata impugnazione.

Con il secondo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione o falsa applicazione dell’art. 1102 c.c., ed omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa il fatto decisivo del divieto ai condomini convenuti di utilizzare il cortile comune per accedere a fondi limitrofi esterni al condominio, sui quali essi avevano realizzato dei garages al servizio dei propri appartamenti, e per addurre ad essi l’energia elettrica, giacché siffatto utilizzo non alterava la destinazione del bene condominiale e non impediva agli altri condomini di farne parimenti uso. Il motivo è infondato.

La sentenza ha fatto corretta applicazione del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che l’uso della cosa comune da parte di un condomino a vantaggio di un bene di sua proprietà esclusiva, estraneo al condominio, costituisce un abuso, non solo quando alteri la destinazione della cosa, ma anche quando si risolva in un’attività corrispondente all’esercizio di una servitù, poiché lo stesso si risolve nell’imposizione di fatto di una limitazione di carattere reale al diritto di proprietà, che non rientra tra le facoltà del partecipante alla comunione, ma è consentita unicamente con il consenso di tutti i condomini (cfr. da ultimo: cass. civ., sez. 2′, sent. 26 settembre 2008, n. 24243; cass. civ., sez. 2′, sent. 19 aprile 2006, n. 9036; cass. civ., sez. 2′, sent. 27 ottobre 2003, n. 16097). Né valgono ad escludere l’abuso il riferimento ad un utilizzo conforme a quello già esistente della cosa comune o non idoneo al suo asservimento, laddove lo stesso non sia riconducibile a mera tolleranza o connotato da una utilità a vantaggio in un altro fondo del tutto transitoria (cfr. con riferimento ad un preesistente utilizzo di un terreno comune come passaggio pedonale e per le auto a vantaggio di un fondo di proprietà esclusiva: cass. civ., sez. 2′, sent. 11 agosto 1999, n. 8591), ovvero ad un mero utilizzo più intenso del bene comune ed al mancato impedimento dell’uso paritetico da parte degli altri condomini, giacché il diritto di ciascun comproprietario di trarre dal bene comune un’utilità anche maggiore e più intensa di quella eventualmente goduta in concreto dagli altri comproprietari, non può sconfinare nell’esercizio di una servitù (cfr.: cass. civ., sez. 2′, sent. 3 giugno 2003, n. 8830).

Con il quarto motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., ed insufficiente e contraddittoria sul fatto decisivo della (ir)rilevanza della prova testimoniale articolata per dimostrare che le autorimesse poste sui fondi di proprietà esclusiva costituivano pertinenze di appartamenti compresi nel condominio e si ponevano rispetto al cortile comune nella loro stessa posizione. Il motivo è inammissibile.

La questione della rilevanza del vincolo pertinenziale nell’uso della cosa comune è stata affrontata in epoca risalente dal giudice di legittimità e risolta con riferimento ad una fattispecie similare mediante l’affermazione che la sottoposizione della cosa accessoria al medesimo regime giuridico della cosa principale, comporta la necessaria conseguenza che il proprietario della cosa principale, cui sia stata collegata altra cosa con rapporto di subordinazione pertinenziale, può usare della cosa comune per accedere tanto alla cosa principale quanto alla pertinenza (cfr.: cass. civ., sez. 2′, sent. 5 marzo 1968, n. 711). Il riesame di essa, ai fini della valutazione della rilevanza dei mezzi di prova articolati dagli appellanti, è tuttavia precluso dalla carenza di autosufficienza del motivo che censura, anche sotto la specie della violazione e falsa applicazione di una norma processuale, la motivazione che sorregge la declaratoria di irrilevanza contenuta nella sentenza impugnata senza riportare quella specificazione dei capitoli, sui quali era stata richiesta l’audizione dei testi, necessaria a valutare la concludenza e la decisività della prova onde pervenire ad una decisione diversa da quella adottata nella sentenza impugnata (cfr.: cass. civ., sez. 3′, sent. 19 marzo 2007, n. 6440; cass. civ., sez. 3′, sent. 20 gennaio 2006, n. 1113).

All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Riunisce i ricorsi.

Rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale.

Condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per spese vive, oltre spese generali, iva, cpa ed altri accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010

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