Il danno biologico terminale connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, non merita ristoro nell’ipotesi in cui alla estrema gravità delle lesioni subite dal soggetto leso segua il relativo decesso dopo un intervallo di tempo brevissimo. Qualora, invece, intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso. Tale danno, qualificabile appunto come danno biologico terminale, dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile iure hereditatis da commisurare soltanto all’inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte. In relazione al caso concreto deve, pertanto, escludersi il risarcimento del danno catastrofico, trasmissibile per via ereditaria, invocato da parte ricorrente, sia in ragione dell’assenza dell’apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite e la morte, sia in assenza di prova della consapevolezza della vittima dell’incidente della sua imminente ed inevitabile fine, atteso che dalla documentazione medica in atti risulta lecito presupporre la presenza di stato di incoscienza dal sinistro alla morte senza soluzione di continuità.

 

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Sinistro stradale – Risarcimento danni da decesso di congiunto

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di Salerno, seconda sezione civile, in composizione monocratica, in persona del giudice Dott.ssa Marina Mainenti, ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile in primo grado, iscritta a ruolo al n. 30000217/2006 R.G., vertente

TRA

Fe.Al., Fe.Fi., Ma.An., elettivamente domiciliati in Salerno, al c.so (…), presso lo studio dell’avv. En.La., che li rappresenta e difende, in uno all’avv. Ca.Ra., in virtù di procura a margine dell’atto di citazione;

Zo.Ce., elettivamente domiciliata in Salerno, alla via (…), presso lo studio degli avv.ti Or.Ca. e An.De., che la rappresentano e difendono in virtù di procura in calce all’atto di citazione;

ATTORI

E

AZ. S.p.A. con sede in Reggio Emilia, in persona del Direttore Generale e legale rappresentate pro tempore, dott. Gi.Ro., elettivamente domiciliato in Salerno, al c.so (…), presso lo studio dell’avv. Do.Sp., che lo rappresenta e difende in virtù di procura in atti;

AS. S.p.A. quale impresa designata per conto della CO. spa – gestione Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada, in persona dei suoi legali rappresentanti pro tempore, ing. Lo.Bi. e dott. Ro.Se., elettivamente domiciliati in Salerno, alla via (…), presso lo studio degli avv.ti Ma. e Gi.Gr., che li rappresentano e difendono giusta procura in atti;

CONVENUTE

NONCHÉ

Za.Pr.;

CONVENUTA – contumace

OGGETTO: risarcimento danni da decesso congiunto in incidente stradale.

CONCISA MOTIVAZIONE

(ex artt. 1132 comma II lettera d c.p.c. e 118 disp att. c.p.c. come mod. Legge 69/2009)

Con atto di citazione ritualmente notificato, Fe.Al., Fe.Fi., Ma.An. e Zo.Ce. convenivano in giudizio, dinanzi al Tribunale di Salerno, ex sede distaccata di Montecorvino Rovella, Za.Pr., la Az. Ass.ni S.p.A. e la Ge. S.p.A. (quali, rispettivamente, proprietaria/conducente, compagnia assicurativa per la RCA della auto (…) tg. (…) nonché impresa designata per la CO. spa – FGVS) per ottenere, previo riconoscimento della esclusiva responsabilità della Za., la condanna dei convenuti in solido dei danni tutti (patrimoniali, biologici, esistenziali, morali, ecc.) subiti a causa dell’incidente del 3/12/2003 nel quale perdeva la vita il proprio congiunto, Fe.Fa.

Invero, gli attori rappresentavano che in data 3/12/2003, alle ore 22,45 circa, sulla SS 18, nel territorio del comune di Bellizzi (SA), Fe.Fa. viaggiava sulla sua moto (…) tg. (…) con direzione di marcia Battipaglia/Salerno, quando all’altezza dell’intersezione con la via IV Traversa Nord-Pratole entrava in collisione con l’auto (…) tg. (…) di proprietà e condotta da Za.Pr.; che l’auto si immetteva sulla SS.18 senza dare la dovuta precedenza alla moto, della cui presenza non si avvedeva per la presenza di alcune auto parcheggiate lungo la SS.18, tagliandole la strada; che a seguito dell’incidente Fe.Fa. riportava gravissime lesioni che ne causavano il decesso, constato alle ore 23,25 dal medico della P.A. Hu. intervenuto sul posto; che i ricorrenti, a seguito di regolare messa in mora (cfr. racc. a/r del 12 – 20/5/2005) erano venuti a conoscenza dell’assenza di copertura assicurativa dell’auto, ragion per cui avevano mandato lettera di messa in mora alla Ge. S.p.A. quale impresa designata dalla Co. S.p.A. per il Fondo di Garanzia per le Vittime della Strada; che il decesso del congiunto dava diritto agli attori (padre, sorella, madre e coniuge conviventi) al risarcimento, oltre che del danno non patrimoniale proprio, anche del danno non patrimoniale maturato in capo al de cuius ed ereditato dai genitori, la sorella, la moglie, nonché del danno da lucro cessante per la perdita del contributo economico del defunto. Instauratosi il contraddittorio, si costituiva la Az. Ass.ni S.p.A. eccependo in via preliminare il proprio difetto di legittimazione passiva, non risultando alcuna polizza per RCA relativa al veicolo in questione: anzi nel corso del giudizio, depositava sentenza penale di condanna della Za. per ricettazione e falso, per aver acquistato e tratto vantaggio dall’uso del contrassegno assicurativo contraffatto (cfr. sentenza n. 1410/06 del Tribunale di Salerno, confermata in appello e definitiva dal 12/4/2013). Con autonoma comparsa, si costituiva la Ge. S.p.A. eccependo: il difetto di legittimazione passiva; l’improcedibilità della domanda, non preceduta dalla corretta messa in mora; l’infondatezza della domanda nell’an e nel quantum; in via subordinata, il rispetto del massimale fissato con D.P.R. 19/4/1993; comunque, il diritto di rivalsa nei confronti della Za..

Rimaneva, di contro, contumace, la convenuta Za.Pr., benché regolarmente citata, anche per la domanda di rivalsa.

Di poi, assunta la prova testimoniale ammessa (cfr. ordinanza del 10/2/2010 e verbali di udienza del 14/7/2010 e 22/12/2010) ed espletate una CTU medico legale (cfr. ordinanze del 10/2/2010 e 14/7/11, relazione del dott. Do.Ca. depositata in data 6/3/2014) e una CTU contabile (cfr. ordinanza del 10/2/2010 e relazione del dott. Ra.Ca. depositata in data 30/6/2011), la causa – nelle more transitata presso la sede centrale del Tribunale di Salerno, a seguito della soppressione ex lege della sede distaccata – sulle conclusioni delle parti, veniva riservata in decisione con la concessione dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. (60 + 20).

Ciò premesso, ritiene questo Giudice che la domanda proposta dagli attori è fondata e può, pertanto, essere accolta nei limiti e per le motivazioni che di seguito si esporranno. In via preliminare, va rilevata l’infondatezza dell’eccezione di improcedibilità o improponibilità della domanda in esame per la mancata messa in mora della CO. S.p.A. ex art. 287 DLS 209/2005, come formulata dalla difesa della Ge. spa. Vero è che ai sensi dell’art. 287 D.Lgs. 209/2005, nelle ipotesi previste dall’art. 283 comma 1, lettere a), b) e d) – tra cui rientra, come nella fattispecie, il caso in cui il sinistro sia stato cagionato da veicolo rimasto non identificato – l’azione per il risarcimento dei danni può essere proposta solo dopo che siano decorsi sessanta giorni da quello in cui il danneggiato abbia chiesto il risarcimento del danno, a mezzo raccomandata, “all’impresa designata ed alla CO. – Fondo di Garanzia per le vittime della strada”. Ma è altrettanto vero che detta disposizione costituisce una novità rispetto al precedente quadro normativo, avendo richiesto che, nelle azioni contro il Fondo di Garanzia, la messa in mora necessariamente preliminare al giudizio debba oggi recapitarsi cumulativamente ad entrambi i soggetti menzionati (Co. e impresa designata), laddove l’abrogato art. 22 L. 990/69 prevedeva in passato che l’invio della predetta raccomandata, nella ipotesi prevista dall’art. 19 lett. a) (veicolo sconosciuto), potesse avvenire anche solo o all’impresa designata o all’Istituto Nazionale Assicurazioni – Gestione autonoma del Fondo di Garanzia, accontentandosi pure di una richiesta unica alternativamente comunicata ad uno dei due soggetti interessati.

Orbene, nel caso che qui ci occupa, alla lettera di messa in mora va applicata necessariamente la normativa previgente, ossia l’art. 22 della legge 990/69: nel caso in cui la vittima di un sinistro stradale proponga la domanda di risarcimento nei confronti dell’assicurazione del responsabile dopo l’entrata in vigore del Codice delle Assicurazioni (1 gennaio 2006), non è tenuto a reiterare la richiesta scritta di risarcimento con le nuove modalità previste dagli artt. 145 e 148 del suddetto codice, se a tale adempimento abbia già provveduto nel vigore dell’abrogata L. 24 dicembre 1969 n. 990, con le modalità previste dall’art. 22 di tale legge (cfr. Cass. 21/4/2011, n. 9140).

Ricorre, invece, bel caso di specie, il dedotto difetto di legittimazione passiva della Az. Ass.ni S.p.A. atteso che è stato accertato la mancanza di copertura assicurativa dell’auto (…) della Za.: con sentenza n. 1410/206 il Tribunale di Salerno (confermata in appello con sentenza 2134/2012, definitiva dal 12/4/2013) ha condannato Za.Pr. per il reato di ricettazione, per aver acquistato e/o ricevuto un contrassegno assicurativo della Compagnia Az. Ass.ni S.p.A. ed una polizza per la RCA completamente contraffatti, nonché per averne fatto uso.

Deve, pertanto rigettarsi la domanda di condanna proposta dagli attori nei confronti della Az. Ass.ni S.p.A. con compensazione delle spese processuali, atteso che la mancanza della copertura assicurativa, pur essendo stata comunicata agli attori dal 31/5/2005 (cfr. telefax allegato al fascicolo di parte attrice), è divenuta certa solo a seguito delle sentenze penali intervenute in corso di causa.

Quanto alla dinamica dell’incidente per cui è causa ritiene questo Giudice che la presunzione di pari responsabilità di cui all’art. 2054 cod. civ. sia, nel caso di specie, superata.

E’ noto che in caso di scontro fra veicoli, l’accertamento in concreto della responsabilità del conducente non comporta il superamento della presunzione di colpa concorrente sancita dall’art. 2054, secondo comma, cc, essendo a tal fine necessario accertare in pari tempo che l’altro conducente si sia pienamente uniformato alle norme di circolazione ed a quelle di comune prudenza ed abbia fatto tutto il possibile per evitare il sinistro (cfr. Cass. 18/12/98 n. 1269; Cass. 13/11/97 n. 11235; Cass. 7/2/97 n. 1198; Cass. 19/4/96 n. 3723, Riv. giur. circ. e trasp., 1996, 325; Cass. 19/4/94 n. 3726, in Arch. Giur. Circ., 1994, 1156). Infatti, nel caso di scontro tra veicoli, è correttamente configurabile, agli effetti dell’art. 2054 cod. civ., il concorso di una colpa specifica accertata a carico di uno dei conducenti con una colpa presunta a carico dell’altro conducente (cfr. Cass. 24/6/97 n. 5635). La materia della precedenza in crocevia, sia sotto il codice della strada abrogato (art. 105) che sotto quello attualmente vigente (art. 145), è assoggettata alla regola generalissima della massima prudenza da usare al fine di evitare incidenti, con ciò intendendo che nei crocevia, e in tutti gli altri casi in cui si pongono problemi di precedenza, debba adoperarsi un grado elevatissimo di cautela ed avvedutezza, affinché non vi siano collisioni tra veicoli (cfr. Cass. pen. Sez. IV 31/1/95 n. 2648, in Riv. Polizia 1996, 200, e in Giust. Pen. 1996, III, 293; Cass. pen. 20/4/94, in Cass. pen. 1995, 3056). Nel caso di scontri tra veicoli, la responsabilità del conducente che abbia violato l’obbligo di dare la precedenza al veicolo favorito non è esclusa dal fatto che il conducente di quest’ultimo non abbia a sua volta osservato le norme della circolazione e quelle di comune prudenza ed abbia omesso, in particolare, di ridurre la velocità approssimandosi all’incrocio potendo tale fatto rilevare solo come causa colposa concorrente (cfr. Cass. 25/5/87 n. 4689, in Giust. Civ. Mass. 1987, fasc. 5).

Orbene, dalla istruttoria espletata nel corso di questa annosa controversia è emerso a chiare lettere che l’incidente in esame è avvenuto il 3/12/2003 alle ore 22,45 circa nei pressi di un incrocio, ossia nel punto di inserzione della via IV Traversa Nord Pratole e la SS 18; che l’auto della Za., proveniente dalla predetta via (…), si immetteva sulla SS. 18, sulla quale viaggiava la moto del Fe., direzione Battipaglia – Salerno; che l’incidente avveniva al centro della carreggiata, tra la parte anteriore sinistra dell’auto e la ruota anteriore della moto.

Invero, l’informativa della Stazione dei Carabinieri di Bellizzi n. 26/14-4 del 18/12/2003 e la deposizione dell’unico testimone oculare, Ma.Da. (cfr. verbale di udienza del 22/12/2010), confermano che l’incidente si è verificato secondo la dinamica descritta da parte attrice.

Tuttavia, va rilevato che dalle medesime risultanze istruttorie non è emerso con certezza che la condotta del Fe.Fa. fosse completamente esente da qualsivoglia responsabilità: dalle dichiarazioni rese dello stesso Ma.Da. nell’immediatezza dei fatti ai Carabinieri, infatti, si rinviene che la moto condotta dal defunto Fe. viaggiava a velocità sostenuta, velocità che il teste aveva constatato quando la moto lo aveva sorpassato poco prima del sinistro (cfr. sit del 4/12/2003), nonché che l’impatto era avvenuto al centro della carreggiata.

In altre parole, l’istruzione probatoria espletata non dà contezza del rispetto da parte del centauro delle generali regole di prudenza e diligenza cui deve essere improntata, comunque, la condotta del conducente di un veicolo a motore.

Alla luce di tali principi, ne consegue che, nel caso di specie, deve riconoscersi l’esistenza di un concorso colposo in applicazione della presunzione di colpa ex art. 2054 c.c., che, tuttavia, in ragione dell’incidenza casuale nella determinazione del sinistro, può essere ascritta per il 20% a Fe.Fa. e per l’80% alla Za.

Passando alla determinazione del quantum del risarcimento da liquidare, giova ricordare che il fatto illecito, costituito dalla uccisione del congiunto, dà luogo ad un danno non patrimoniale presunto, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorché colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare. Perché, invece, possa ritenersi risarcibile la lesione del rapporto parentale subita da soggetti estranei a tale ristretto nucleo familiare (quali i nonni, i nipoti, il genero, o la nuora) è necessario che sussista una situazione di convivenza, in quanto connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela, anche allargate, contraddistinte da reciproci legami affettivi, pratica della solidarietà e sostegno economico, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario, nonché la famiglia intesa come luogo in cui si esplica la personalità di ciascuno, ai sensi dell’art. 2 Cost. (cfr. Cass. n. 4253 dl 16/3/2012 ). In tema di danno dovuto ai parenti della vittima, non è necessaria la prova specifica della sua sussistenza, ove sia esistito tra di essi un legame affettivo di particolare intensità, potendo a tal fine farsi ricorso anche a presunzione. La prova del danno morale è, infatti, correttamente desunta dalle indubbie sofferenze patite dai parenti, sulla base dello stretto vincolo familiare, di eventuale coabitazione e, comunque, di frequentazione, che essi avevano avuto, quando ancora la vittima era in vita. In conseguenza della morte di persona causata da reato, ciascuno dei suoi familiari prossimi congiunti è titolare di un autonomo diritto per il conseguente risarcimento del danno morale, il quale deve essere liquidato in rapporto al pregiudizio da ognuno individualmente patito per effetto dell’evento lesivo, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto, rimanendo, per converso, esclusa la possibilità per il giudice di procedere ad una determinazione complessiva ed unitaria del suddetto danno morale ed alla conseguente ripartizione dell’intero importo in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto. Ai fini di tale valutazione, l’intensità del vincolo familiare può già di per sé costituire un utile elemento presuntivo su cui basare la ritenuta prova dell’esistenza del menzionato danno morale, in assenza di elementi contrari, e, inoltre, l’accertata mancanza di convivenza del soggetto danneggiato con il congiunto deceduto può rappresentare – come nella specie – un idoneo elemento indiziario da cui desumere un più ridotto danno morale, con derivante influenza di tale circostanza esclusivamente sulla liquidazione dello stesso (cfr. Cass. 19 gennaio 2007 n. 1203; Cass. 19/11/2009 n. 24435).

Quanto alla quantificazione del danno risarcibile, si ritiene applicabile il criterio di liquidazione cui i giudici di merito devono attenersi, al fine di garantire l’uniformità di trattamento, ossia a quello predisposto dal Tribunale di Milano, in quanto ampiamente diffuso sul territorio nazionale (cfr. Cass. 7/6/2011 n. 12408).

In base alle ultime Tabelle di Milano, aggiornate al 2014, in ragione dell’età del congiunto defunto e del congiunto/coniuge superstite, la somma liquidabile ai genitori conviventi col defunto figlio vanno da un minimo di Euro 163.990,00 ad un massimo di Euro 291.555,00; per la sorella (sempre convivente) da Euro 23.740,00 ad Euro 178.695,00; per la moglie convivente, da Euro 163.990,00 a Euro 300.960,00.

In conclusione, il danno subito dai congiunti a seguito della morte di Fe.Fa. può equitativamente liquidarsi – in ragione anche dei particolari elementi probatori emersi dalla istruttoria, nella percentuale massima – nella somma attuale di Euro 300.000,00 per la moglie (Zo.Ce.), Euro 290.000,00 per ciascuno dei genitori (Fe.Al. e Ma.An.), Euro 170.000,00 per la sorella (Fe.Fi.). Per quanto riguarda, poi, il danno non patrimoniale iure proprio richiesto dai genitori e dalla sorella del defunto, è necessario preliminarmente effettuare una precisazione di natura terminologica.

Il sistema tradizionale (cd. “tripolare”) prevedeva il riconoscimento di tre voci di danno alla persona: il danno alla salute o danno biologico, danno – evento del fatto lesivo della salute, pregiudizio primario, immancabile e risarcibile ex art. 2043 c.c. e art. 32 Cost.; il danno morale, caratterizzato dal turbamento psicologico del soggetto leso, danno – conseguenza, riconosciuto solamente ove vengano accertate la sussistenza e le condizioni di risarcibilità; il danno patrimoniale, a sua volta danno – conseguenza, che per essere risarcito esige la dimostrazione della sua esistenza. A fianco di queste tre voci di danno, nel corso degli anni parte della dottrina e della giurisprudenza ha individuato una quarta voce, il cd. danno esistenziale: danno derivato dalla forzosa lesione allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento e benessere per il danneggiato, ma non causata da una compromissione della integrità psicofisica. Tuttavia, tale sistema risarcitorio è stato rivisitato da alcune importanti recenti decisioni della Suprema Corte di Cassazione (n. 8827 e 8828 del maggio 2003) e della Corte Costituzionale (sentenza n. 233/2003), nonché dalla recentissima sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 26972 del 11/11/2008. Con tali sentenze si è passati, in pratica, ad una visione “bipolare” dal danno alla persona, ossia con la dicotomia danno patrimoniale e danno non patrimoniale. In tale ottica, l’art. 2059 c.c. ricomprende ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d’animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, quale lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psicofisica della persona, conseguente ad accertamento medico; sia, infine, il danno derivante dalla lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona. In particolare, con l’importante decisione 11 novembre 2008 n. 26972 (di contenuto identico ad altre tre sentenze, tutte depositate contestualmente) le Sezioni Unite della Cassazione hanno non solo composto i precedenti contrasti sulla risarcibilità del c.d. danno esistenziale, ma hanno anche più in generale riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’art. 2059 c.c.. La sentenza ha innanzitutto ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad es., nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc, deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione. La decisione è quindi passata ad esaminare il contenuto della nozione di danno non patrimoniale, stabilendo che quest’ultimo costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva. E’, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il c.d. “danno morale soggettivo”, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico ed unitario danno non patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante. Da questo principio è stato tratto il corollario che non è ammissibile nel nostro ordinamento la concepibilità d’un danno definito “esistenziale”, inteso quale la perdita del fare areddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato. Quando, per contro, un pregiudizio del tipo definito in dottrina “esistenziale” sia causato da condotte che non siano lesive di specifici diritti della persona costituzionalmente garantiti, esso sarà irrisarcibile, giusta la limitazione di cui all’art. 2059 c.c.. Da ciò le SS.UU. hanno tratto spunto per negare la risarcibilità dei danni non patrimoniali cc.dd. “bagatellari”, ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità, ed hanno al riguardo avvertito che la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie, è censurabile in sede di gravame per violazione di un principio informatore della materia. La sentenza è completata da tre importanti precisazioni in tema di responsabilità contrattuale, liquidazione e prova del danno. Per quanto attiene la responsabilità contrattuale, le SS.UU. hanno precisato che anche dall’inadempimento di una obbligazione contrattuale può derivare un danno non patrimoniale, che sarà risarcibile nei limiti ed alle condizioni già viste (e quindi o nei casi espressamente previsti dalla legge, ovvero quando l’inadempimento abbia leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione). Per quanto attiene la liquidazione del danno, le SS.UU. hanno ricordato che il danno non patrimoniale va risarcito integralmente, ma senza duplicazioni: deve, pertanto, ritenersi sbagliata la prassi di liquidare in caso di lesioni della persona sia il danno morale sia quello biologico; come pure quella di liquidare nel caso di morte di un familiare sia il danno morale, sia quello da perdita del rapporto parentale: gli uni e gli altri, per quanto detto, costituiscono infatti pregiudizi del medesimo tipo. Infine, per quanto attiene la prova del danno, le SS.UU. hanno ammesso che essa possa fornirsi anche per presunzioni semplici, fermo restando però l’onere del danneggiato di fornire gli elementi di fatto dai quali desumere l’esistenza e l’entità del pregiudizio. Il nuovo sistema risarcitorio, comunque, non ha modificato la nozione di danno biologico. Il danno biologico, in pratica, consiste nella temporanea o definitiva compromissione della complessiva integrità psicofisica dell’individuo, suscettibile di essere positivamente accertata sotto il profilo medico – legale, dalla quale sia derivato un peggioramento concreto dell’esistenza del soggetto leso e perciò collegata a tutte le attività di realizzazione della personalità (cfr. Cass. n. 7977/1997; Cass. 7559/2007; Cass. n. 5635/1997; ed altre), così come le sue sottospecie del “danno estetico” (Cass. 21/5/2001 n. 6895; Cass. 15/12/2000 n. 15859; Cass. 29/9/99 n. 10762) e del “danno sessuale” (cfr. Cass. 11/2/98 n. 1421), nonché del danno alla “capacità lavorativa generica” (cfr. Cass. 10/7/98 n. 6736; Cass. 28/4/99 n. 4231; Cass. 24/5/2001 n. 7084). Quello che è cambiato, quindi, è solo l’inquadramento giuridico del danno biologico – il quale trova la sua tutela nell’art. 2059 c.c. e non nell’art. 2043 cc, che attiene esclusivamente alla tutela dei danni patrimoniali – ma non la nozione dello stesso, né tampoco i criteri liquidativi. La Giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, ritiene che la liquidazione di tale danno non possa essere effettuata in base a criteri che tengano presente il parametro reddituale, quale quello del triplo della pensione sociale, trattandosi di un criterio legale che si riferisce al solo danno patrimoniale da lucro cessante (Cass. n. 8344/96; Cass. n. 477/96; Cass. n. 9772/95). La determinazione dell’equivalente monetario del valore vitale leso, quindi, andrà condotta con valutazione equitativa, in ragione di tutte le circostanze del caso concreto e specificamente della gravità delle lesioni, degli eventuali postumi permanenti, dell’età, dell’attività espletata, delle condizioni familiari e sociali del danneggiato. In tale ambito può essere adottato, come parametro di riferimento, il valore medio del punto di invalidità, purché sia adeguato alle peculiarità del caso concreto.

La consulenza tecnica d’ufficio (cfr. relazione del dott. Do.Ca. del 6/3/2014), con valutazione medico – legale condotta secondo criteri rigorosamente scientifici ed esente da vizi logici o contraddittorietà valutative, ha quantificato nella misura del 5% la percentuale di invalidità permanente di Fe.Al. e Ma.An.; per cui in rapporto all’età dei danneggiati, al coefficiente di demoltiplicazione ed al valore del punto di invalidità (Tabelle di Milano aggiornate al 2014), l’importo che si ottiene è pari alla somma complessiva di Euro 10.000,00 ciascuno, tenuto conto del massimo un aumento a titolo di “personalizzazione” complessiva della liquidazione del danno, date le peculiarità allegate e provate dai danneggiati per quanto attiene agli aspetti anatomo – funzionali e relazionali ed agli aspetti di sofferenza soggettiva.

Ma l’entità del danno sotto il profilo della lesione del diritto alla salute si coglie anche in relazione al tempo necessario al consolidamento dei postumi riduttivi della integrità e, dunque, alla durata della malattia che comporta, di necessità, la temporanea sospensione (in tutto o in parte) delle pregresse facoltà realizzative del soggetto leso nei vari aspetti esistenziali: la indispensabile completezza del risarcimento impone, pertanto, di liquidare altresì una somma per ogni giorno di effettiva inabilità temporanea. Ne consegue che, considerato che per ogni giorno di inabilità temporanea totale appare equa la liquidazione di Euro 96,00, deve liquidarsi a titolo di inabilità temporanea in favore di Fe.Al. la somma complessiva di Euro 672,00 (7 giorni di ITT), in favore di Ma.An. la complessiva somma di Euro 2.880,00 (30 di ITT) e in favore di Fe.Fi. la complessiva somma di Euro 2.880,00 (30 di ITT).

In merito, poi, al danno patrimoniale tout court, tale danno designa la variazione peggiorativa del patrimonio materiale del danneggiato, apprezzabile sia in termini di riduzione della consistenza patrimoniale al momento del fatto (danno emergente), sia di perdita certa dei potenziali incrementi di reddito, oggetto di ragionevole aspettativa (lucro cessante).

Nel caso di specie, ritiene questo Giudice che non può essere riconosciuto il danno emergente, consistente nelle spese funerarie e nella “distruzione” della moto, perché sforniti del tutto di prova.

Né potrebbe procedersi comunque alla richiesta liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. E’ noto, infatti, che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza (cfr. Cass. n. 1060 del 30/04/2010; Cass. ord. n. 27447 del 19/12/2011; Cass. n. 20990 del 12/10/2011; Cass. n. 1529 del 26/1/2010; Cass. n. 23304 dell’8/11/2007). L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generalo potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., non ricomprende anche l’accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, presupponendo già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza e l’entità materiale del danno, né esonera la parte stessa dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, affinché l’apprezzamento equitativo sia per quanto possibile, ricondotto alla sua funzione di colmare solo le lacune insuperabili nell’iter della determinazione dell’equivalente pecuniario del danno (cfr. Cass. n. 13288 del 7/06/2007). Lacune insuperabili che, nel caso di specie, non ricorrono. Di contro, risulta un danno patrimoniale da lucro cessante.

Il danno al patrimonio da lucro cessante ha conosciuto una significativa evoluzione dogmatica, finendo la giurisprudenza per mutuare dalla scienza medico legale le categorie della capacità lavorativa generica, intesa quale attitudine astratta non rapportata ad alcuna tipologia d’impiego (e di regola ricompresa nella valutazione del danno biologico), e della capacità lavorativa specifica, vale a dire relativa all’impiego proprio dell’occupazione concretamente svolta dal danneggiato.

In ordine a tale ultima tipologia di danno patrimoniale, la dimostrazione irrefutabile circa l’effettiva flessione del reddito lavorativo è data, di norma, dalla comparazione dei redditi denunziati dal danneggiato prima e dopo il sinistro. Se manca la prova piena del danno futuro, il giudice potrà procedere alla liquidazione in base ai calcoli probabilistici e presuntivi. Una volta individuato il reddito e stabilita la misura della sua probabile flessione futura, quindi, la liquidazione viene eseguita con la seguente formula: R x C x Y% – D, dove R è il reddito lavorativo annuo o il triplo della pensione sociale, C è il coefficiente di capitalizzazione corrispondente all’età del danneggiato, Y% è la percentuale di flessione del reddito, D è la diminuzione del risultato per lo scarto tra vita fisica e vita lavorativa, non coincidendo la durata della seconda con la prima.

In via generale, va considerato che, sia in relazione a precetti normativi – si pensi agli artt. 315 c.c., 433 c.c., 230 bis c.c. – che in virtù delle regole di carattere etico – sociale di solidarietà familiare improntanti il vivere pratico, presumibilmente il soggetto deceduto prematuramente avrebbe apportato, secondo criteri di normalità, un contributo economico alla propria famiglia alla stregua di una valutazione sorretta anche dalle presunzioni e dai dati estraibili dal notorio e dalla comune esperienza, in rapporto a tutte le circostanze del caso concreto (cfr. in tal senso e fra le altre, Cass. 26/2/1996, n. 1474, e Cass. 26/11/1996, n. 10480).

A tal fine, alla base del calcolo tabellare relativo alla capitalizzazione del futuro guadagno del defunto va posto il reddito goduto da Fe.Fa. all’epoca della sua morte. Esso secondo quanto risulta dalle ultime tre dichiarazioni dei redditi prima del sinistro deve considerarsi pari a Euro 88.116 netti: per il calcolo del risarcimento dei danni patrimoniali derivanti ai congiunti va preso in considerazione il reddito percepito in concreto, cioè al netto delle ritenute fiscali (cfr. Cass. n. 494/93) e, comunque, da considerarsi nella sua “spendibilità concreta”, dal medesimo va operata la decurtazione di quanto il percettore avrebbe dovuto decurtare dal reddito lordo per pagamento di imposte e di ogni onere inerente alla produzione del medesimo, mentre per converso va computato quanto gli sarebbe stato restituito (o dedotto o detratto) dal prelievo fiscale in ragione delle sue condizioni personali. In particolare, deve prendersi come riferimento il reddito più alto dell’ultimo triennio, in ragione della lettera di cui all’art. 137 Codice delle assicurazioni, che riproduce in sostanza la normativa previgente (cfr. art. 4 DL 857/1976 conv. in Legge n. 39/1977).

Operando sullo stabilito importo ed effettuando la capitalizzazione sulla base, che si considera congrua, dei coefficienti portati dalle tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie immediate di cui al R.D. 9.10.1922, n. 1403, occorre quindi svolgere il seguente computo.

Bisogna, innanzitutto, individuare il coefficiente di capitalizzazione di riferimento che, limitando l’opzione fra il defunto e la consorte, unici appartenenti al nucleo familiare in senso stretto nel quale è primariamente maturata la perdita, sarà necessariamente quello relativo al de cuius, Fe.Fa., in quanto egli, con riferimento all’epoca del fatto illecito subìto, era di età maggiore rispetto a quella della moglie. In base, infatti, ad un principio generale elaborato in materia anche in sede giurisprudenziale, ai fini dell’applicabilità della tariffa sopra indicata, occorre far riferimento all’età dell’effettivo danneggiato al momento in cui si verifica la deminutio di natura permanente. Il principio deve trovare un correttivo allorché si tratti di danno subito da superstiti, laddove il calcolo della capitalizzazione incontra un doppio limite nell’età della vittima, dalla cui morte deriva il danno, ed in quella del danneggiato: di guisa che deve farsi riferimento, in tal caso, alla maggiore età tra quella della vittima e del danneggiato.

Nel caso di specie, dunque, il parametro di riferimento è l’età del deceduto al momento dell’incidente occorsogli, che è pari a 28 anni e mezzo (il Fe.Fa. era nato il (…) laddove la consorte è nata nel 1980).

In tal modo si ottiene che, moltiplicando la somma di Euro 88.116,00 per il coefficiente di capitalizzazione 18,250, individuato sulla base delle tariffe per la costituzione delle rendite vitalizie immediate di cui al R.D. 9.10.1922, n. 1403, tenendo poi conto del 100% del relativo risultato (ragguagliando il mancato reddito da morte al mancato reddito da invalidità permanente totale), per complessivi Euro 1.608.117,00, e operando poi una detrazione equamente individuabile nel 20% dell’intero (data la giovane età del Ferraiolo), per considerare lo scarto fra vita fisica e vita lavorativa del produttore di reddito (20%, pari a Euro 321.623,40), si ottiene in tal modo la somma restante di Euro 1.286.493,60.

E’ poi da tenere nel debito conto che di tale somma il de cuius avrebbe presumibilmente tenuto per sé e comunque per la famiglia da poco creatasi una quota sensibile, considerata in particolare la sua giovane età e la possibilità, in relazione al matrimonio appena contratto, che egli avrebbe avuto dei figli propri. Inoltre, con riferimento alla posizione dei genitori, se, da un lato, è da considerarsi che di certo, in relazione a radicati valori etico – sociali e giuridici, il contributo che il figlio defunto avrebbe, dal punto di vista economico, apportato ai medesimi sarebbe stato più consistente di quello che avrebbe apportato alla sorella. E’ noto che affinché i genitori di una persona di giovane età, deceduta per colpa altrui, possano ottenere il risarcimento del danno patrimoniale per la perdita degli emolumenti che il figlio avrebbe loro verosimilmente elargito una volta divenuto economicamente autosufficiente, non è sufficiente dimostrare né la convivenza tra vittima ed aventi diritto, né la titolarità di un reddito da parte della prima, ma è necessario dimostrare o che la vittima contribuiva stabilmente ai bisogni dei genitori, ovvero che questi, in futuro, avrebbero verosimilmente e probabilmente avuto bisogno delle sovvenzioni del figlio (cfr. Cass. 11/5/2012). In altri termini, i richiedenti, ai fini della liquidazione del danno patrimoniale futuro derivante dalla perdita degli alimenti che il figlio avrebbe potuto erogare in favore dei genitori o del genitore superstite, dovevano provare che, sulla base delle circostanze attuali, secondo criteri non ipotetici, ma ragionevolmente probabilistici, essi avrebbero avuto bisogno di tale prestazione alimentare; allo stesso modo, dovevano provare il verosimile contributo del figlio ai bisogni della famiglia, ove dedotto per il futuro (cfr. Cass. n. 4791/07 e n. 8546/08). Ove, poi, la perdita di tale contributo sia dedotta nel presupposto che questo fosse già in essere al momento del decesso del congiunto convivente, non è sufficiente la prova della convivenza ne’ la prova della percezione di redditi da parte della vittima, dovendo appunto essere provato che questa destinasse parte dei propri redditi ai bisogni familiari.

Prova che, nel caso di specie, è stata fornita dalle dichiarazioni dei testi escussi (cfr. deposizioni di Fr.Ma. e Fe.Al. in verbale di udienza del 14/7/2010). Sulla base delle considerazioni che precedono, si ritiene che la percentuale di reddito che Fe.Fa. avrebbe trattenuto per sé (e per il concorso su di lui gravante alle esigenze di possibili futuri appartenenti alla famiglia creata e per l’attività di impresa) non sarebbe stata inferiore al 55%, mentre il restante 45% sarebbe stato devoluto alla moglie e alla propria famiglia di origine, in particolare per il 30% alla prima, per il 12% ai propri genitori, per la quota del 6% ciascuno, e per il restante 3% alla propria collaterale. Il risarcimento da lucro cessante spettante ai sopravvissuti va dunque calcolato sulla somma di Euro 578.922,12, pari al 45% del reddito del de cuius come sopra capitalizzato, da ripartirsi in ragione di Euro 385.948,08 in favore della moglie e di Euro 192.974,04 in favore della famiglia di origine, ed in particolare di Euro 154.379,23 ai genitori (per Euro 77.189,61 ciascuno) e di Euro 38.594,81 alla sorella.

Infine, non risarcibile si ritiene il danno cd. “tanatologico”, ossia il danno connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, sia da quello rivendicabile “iure hereditatis” dagli eredi della vittima dell’illecito, poi rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico – fisica.

Ben conosce questo Giudice il recentissimo orientamento espresso dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 1361 del 23/01/2014, in base alla quale “Il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita della vita – bene supremo dell’individuo, oggetto di un diritto assoluto ed inviolabile – è garantito dall’ordinamento in via primaria anche sul piano della tutela civile, presentando carattere autonomo, in ragione della diversità del bene tutelato, dal danno alla salute, nella sua duplice configurazione di danno “biologico terminale” e di danno “catastrofale”. Esso, pertanto, rileva “ex se”, a prescindere dalla colpevolezza che il danneggiato ne abbia avuto, dovendo ricevere ristoro anche in caso di morte cosiddetta “immediata” o “istantanea”, senza che assumano rilievo né la persistenza in vita della vittima per un apprezzabile lasso di tempo, né l’intensità della sofferenza dalla stessa subita per la cosciente e lucida percezione dell’ineluttabilità della propria fine”.

Tuttavia, nel contrasto giurisprudenziale esistente, si ritiene di aderire al diverso orientamento che ha affermato l’irrisarcibilità di tale danno e da ultimo confermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (cfr. Cass. S.U. n. 15350/2015). In particolare, la sentenza n. 6754/2011 della Corte di Cassazione, nella scia di una risalente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. S.U. n. 3475 del 1925, cui, nel tempo, si sono conformate, tra le tante, Cass. n. 2654 del 2012 e n. 13672 del 2010), ha affermato il principio di diritto della irrisarcibilità per via ereditaria del danno da morte immediata. Il principio, come è noto, era stato espressamente posto a fondamento della decisione n. 372 del 1994 della Corte Costituzionale, che aveva escluso profili di illegittimità costituzionale dell’art. 2043 c.c., in relazione al c.d. “danno biologico da morte”, in dipendenza del “limite strutturale della responsabilità civile, nella quale sia l’oggetto del risarcimento che la liquidazione del danno devono riferirsi non alla lesione per se stessa, ma alle conseguenti perdite a carico della persona offesa”. La giurisprudenza della terza sezione civile della Suprema Corte si è poi spinta ad affermare la trasmissibilità agli eredi del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale consistito nella sofferenza morale provata tra l’infortunio e la morte solo se, in tale periodo di tempo, la persona sia rimasta lucida e cosciente. Con la decisione n. 26972 del 2008, infatti, con la quale se Sezioni Unite, chiamate a dare risposta a un coacervo di quesiti – posti dall’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – inerenti alla complessa materia della liquidazione del danno non patrimoniale, ebbero modo di affermare che la costante giurisprudenza di legittimità, da una parte, nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (cfr. Cass. n. 1704/1997; n. 491/1999; n. 13336/1999, n. 887/2002; n. 517/2006), e d’altra parte lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (cfr. Cass. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, osservando poi come venga in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo: sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione, e concludendo che, d’altra parte, “non può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso”. Sul tema del danno da morte immediata, altra sentenza della Cassazione (la n. 19133/2011) ha affermato il principio che quando all’estrema gravità delle lesioni segua, dopo un intervallo di tempo brevissimo …., la morte, non può essere risarcito il danno biologico “terminale” connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, ma esclusivamente il danno morale, dal primo ontologicamente distinto, fondato sull’intensa sofferenza d’animo conseguente alla colpevolezza delle condizioni cliniche seguito al sinistro.

Su questa scia si sono mosse, in tempi più recenti, le seguenti pronunce di legittimità. La paura di dover morire, provata da chi abbia patito lesioni personali e si renda conto che esse saranno letali, è un danno non patrimoniale risarcibile soltanto se la vittima sia stata in grado di comprendere che la propria fine era imminente, sicché, in difetto di tale colpevolezza, non è nemmeno concepibile l’esistenza del danno in questione, a nulla rilevando che la morte sia stata effettivamente causata dalle lesioni (cfr. Cass. n. 13537 del 13/06/2014). In tema di danno da perdita della vita, nel caso in cui intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni colpose e la morte causata dalle stesse, è configurabile un danno biologico risarcibile, da liquidarsi in relazione alla menomazione della integrità fisica patita dal danneggiato sino al decesso. Tale danno, qualificabile come danno “biologico terminale”, dà luogo ad una pretesa risarcitoria, trasmissibile “iure hereditatis” da commisurare soltanto all’inabilità temporanea, adeguando tuttavia la liquidazione alle circostanze del caso concreto, ossia al fatto che, se pur temporaneo, tale danno è massimo nella sua intensità ed entità, tanto che la lesione alla salute non è suscettibile di recupero ed esita, anzi, nella morte (cfr. Cass. n. 15491 del 08/07/2014; Cass. n. 22228 del 20/10/2014; Cass. n. 23183 del 31/10/2014).

In base, quindi, all’orientamento testè riportato, deve escludersi il risarcimento del danno “catastrofico”, trasmissibile per via ereditaria, invocato da parte ricorrente, sia in ragione dell’assenza dell’apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite e la morte (incidente risalente alle ore 22,45 circa – morte constatata alle ore 23,25 dello stesso giorno); sia in assenza di prova della colpevolezza della vittima dell’incidente della sua imminente ed inevitabile fine, atteso che risulta dalla documentazione medica in atti che il decesso del giovane Fe.Fa. veniva certificata sullo stesso luogo del sinistro per “politrauma da incidente stradale”, che lasciano verosimilmente presupporre la presenza di stato di incoscienza dal sinistro alla morte senza soluzione di continuità.

In conclusione, il risarcimento totale spettante agli attori ammonta alla complessiva somma di Euro 1.655.354,11, di cui:

– in favore della moglie, Zo.Ce., in moneta attuale, Euro 685.948,08, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo; – in favore del padre, Fe.Al., in moneta attuale, Euro 377.861,61, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo;

– in favore della madre, Ma.An., in moneta attuale, Euro 380.069,61, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo; – in favore della sorella, Fe.Fi., in moneta attuale, Euro 211.474,81, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo. Al pagamento delle somme così determinate vanno condannate la convenuta Za.Pr. per intero, in solido con la Ge. S.p.A. ma quest’ultima solo fino al limite di Euro 774.685,35, ossia nell’ambito del massimale all’epoca vigente fissato con D.P.R. 19/4/1993.

Le spese processuali del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate così come in dispositivo a norma del DM 55/14 in maniera unitaria stante la difesa congiunta operata dai diversi difensori, con compensazione per la metà attesa la enorme differenza tra la somma richiesta ab origine (circa Euro 6.000.000,00) e quella liquidata, con distrazione in favore dei difensori di parte attrice per dichiarato anticipo.

In base al medesimo principio, le spese di CTU già liquidate vanno poste in via definitiva a carico delle convenute, Za.Pr. e Ge. S.p.A. in solido. In ragione della domanda di rivalsa proposta dalla Ge. S.p.A. nei confronti della Za.Pr., quest’ultima va condannata a rivalere l’As. S.p.A. della somme che viene in questa sede condannata a pagare agli attori.

P.Q.M.

Il Tribunale di Salerno, seconda sezione civile, in composizione monocratica, nella persona della dott.ssa Ma.Ma., definitivamente pronunciando sulle domande proposte da Fe.Al., Ma.An., Fe.Fi. e Zo.Ce. nei confronti di Za.Pr., della Ge. S.p.A. e della Az. Ass.ni S.p.A. ogni diversa domanda, eccezione e deduzione disattesa, così provvede:

1) RIGETTA la domanda proposta nei confronti della Az. Ass.ni spa;

2) COMPENSA le spese processuali tra gli attori e l’Az. Ass.ni spa;

3) ACCOGLIE la domanda di risarcimento e, per l’effetto, CONDANNA Za.Pr. al pagamento della complessiva somma di Euro 1.655.354,11, in solido con la Ge. S.p.A. fino alla concorrenza di Euro 774.685,35 di cui

– in favore della moglie, Zo.Ce., in moneta attuale, Euro 685.948,08, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo;

– in favore del padre, Fe.Al., in moneta attuale, Euro 377.861,61, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo;

– in favore della madre, Ma.An., in moneta attuale, Euro 380.069,61, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo;

– in favore della sorella, Fe.Fi., in moneta attuale, Euro 211.474,81, oltre interessi al tasso legale sulla somma via via rivalutata dal 3/12/2003 fino alla sentenza, oltre gli ulteriori interessi legali sul capitale dalla sentenza sino all’effettivo soddisfo;

4 – CONDANNA i convenuti, Za.Pr. e la Ge. S.p.A. al pagamento in favore degli attori delle spese processuali, che si liquidano nella somma di Euro 15.000,00 pari a 1/2 delle competenze e mediante compensazione dell’ulteriore metà, oltre Euro 1.225,51 per esborsi, oltre accessori se dovuti, da distrarsi in favore dei difensori di parte attrice per dichiarato anticipo;

5 – PONE definitivamente a carico delle convenute, Za.Pr. e Ge. S.p.A. in solido, le spese di CTU già liquidate;

6 – CONDANNA la convenuta Za.Pr. a rivalere la Ge. S.p.A. delle somme di cui ai precedenti capi 3), 4) e 5).

Così deciso in Salerno il 7 marzo 2016.

Depositata in Cancelleria il 15 marzo 2016.

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