L’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva della reputazione del profilo professionale dell’ex datore di lavoro pubblicate sulla bacheca del proprio profilo Facebook integra sicuramente gli estremi della diffamazione, alla luce del carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network.
Più esattamente tale comportamento va qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall’avere arrecato l’offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al terzo comma dell’art. 595 c.p. e equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo stampa), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale.
Tribunale di Livorno – Ufficio Giudice Indagini Preliminari – Sentenza 31 dicembre 2012, n. 38912
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
Presso il Tribunale di Livorno Dr. Antonio Pirato
all’udienza in Camera di Consiglio del 02/10/12 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura la seguente
SENTENZA
nei confronti di (omissis) nt. Livorno 13.05.86 dom. eletto c/o lo studio del difensore Girolamo Adoncecchi del Foro di Livorno – presente –
difesa di fiducia dall’Avv.to Girolamo Adoncecchi del Foro di Livorno – presente –
IMPUTATA
Del reato di cui all’art. 595 comma 3 c.p. perché pubblicando su Facebook messaggi con se seguenti frasi “vi consiglio vivamente di non andare x chi lo conosce al Centro (omissis) perché fa onco ai bai, sono persone che non lavorano seriamente” nonché “sono dei pezzi di merda, è quello che si meritano…” “sei proprio una ….. e di merda”, offendeva la reputazione di (omissis) titolare e legale rappresentante del Centro Estetico.
In Livorno il 09.05.2011
Parte Civile
(omissis) nt. in Albania 19.05.1981 dom. eletto c/o lo studio dell’Avv.to Valerio Misiti del Foro di Livorno – non presente
Difeso dall’Avv.to Valerio Misiti del Foro di Livorno – presente
con l’intervento del Pubblico Ministero Dr. G. Rizzo
e degli Avv.ti G. Adoncecchi e Avv.to V. Misiti del Foro di Livorno
Le parti hanno concluso come segue; il PM chiede la condanna alla pena della multa di € 2.000.
l’Avv.to Misiti per la P.C. si associa alle conclusioni del PM e chiede “Piaccia al Giudice adito, confermata la penale responsabilità dell’imputata (omissis) in ordine al reato alla stessa ascritto in rubrica, condannarla alla pena ritenuta di giustizia ed all’integrale risarcimento dei danni materiali e morali, ex artt. 2043 e 2059 c.c., in favore della parte civile costituita (omissis), da liquidarsi in via equitativa e/o in sede civile.
Piaccia ancora al Giudice adito condannare la sopra indicata imputata al pagamento di provvisionale immediatamente esecutiva in favore del sig. (omissis), ai sensi dell’art. 540 c.p.p., in misura non inferiore ad euro 10.000,00 ovvero in via equitativa, nonché alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile per questo grado del giudizio”.
l’Avv.to Adoncecchi per (omissis) chiede sentenza di NLP con benefici di legge.
MOTIVI DELLA DECISIONE IN FATTO E IN DIRITTO
Con richiesta di rinvio a giudizio depositata dal P.m. il 5.1.2012 (omissis) veniva tratta a giudizio con l’accusa di avere commesso il reato di cui all’art. 595 comma 3 c.p. pubblicando su Facebook i messaggi offensivi descritti nel capo d’imputazione in epigrafe trascritti, a proposito del centro estetico gestito a Livorno dal querelante (omissis)
Quest’ultimo, ritenendosi leso nella sua reputazione, in data 10.5.2011 proponeva atto di querela contro la (omissis) affinché venisse perseguita penalmente per il reato di cui all’art. 595 e all’udienza preliminare si costituiva parte civile.
Il difensore dell’imputata nel corso dell’udienza preliminare otteneva che il procedimento venisse trattato con le forme del rito abbreviato e all’odierna udienza, udita la discussione e le conclusioni delle parti, veniva pronunciata sentenza mediante lettura del dispositivo.
Nell’atto di querela la persona offesa rappresentava in particolare che l’odierna prevenuta aveva prestato attività lavorativa alle sue dipendenze presso il centro estetivo ma il rapporto aveva avuto breve durata essendo stata la dipendente licenziata per le inadempienze nello svolgimento delle mansioni lavorative.
Lamentava il querelante che il successivo 9 maggio 2011 la ex dipendente aveva pubblicato un messaggio sulla “bacheca” del proprio profilo Facebook dal contenuto volgare e tenore chiaramente denigratorio a proposito dell’aspetto della professionalità del centro estetico (omissis) (“sono persone che non lavorano seriamente”… “fa onco ai bai”) sconsigliando a chiunque di frequentarlo (cfr. doc. n. 5 allegato alla querela).
La (omissis), inoltre, nel conversare con altri “amici” sempre su facebook si esprimeva con epiteti offensivi con riferimento al gestore del centro estetico (“sei proprio un a……..e di merda” … “sono dei pezzi di merda”).
Valuta questo G.U.P. che le risultanze istruttorie siano idonee a fondare l’ipotesi accusatoria.
Non v’è dubbio che le espressioni sopra riportate provengano da (omissis).
Le argomentazioni difensive svolte in sede di discussione finale si sono incentrate essenzialmente sulla pretesa impossibilità di attribuire con certezza la paternità di uno scritto o un messaggio al titolare “apparente” del “profilo” dalla cui fonte quello scritto proviene potendo sotto quella apparente identità celarsi un soggetto autore diverso dal titolare del profilo che avrebbe operato sostanzialmente un “furto d’identità”, scrivendo sotto falso nome utilizzando indebitamente l’altrui profilo.
La tesi difensiva non ha pregio.
E’ pacifico e non è contestato dalla difesa il presupposto antefatto e cioè che la (omissis) abbia lavorato presso il suddetto Centro Estetico ed infatti uno dei partecipanti alla conversazione si rivolge a (omissis) – che aveva appena pubblicato sulla propria bacheca la frase; “vi consiglio vivamente di non andare x chi lo conosca al centro estetico (omissis) perché fa onco ai bai, sono persone che non lavorano seriamente” – dicendole: “perché? Non ci lavoravi?” e la (omissis) risponde: “sì, ma ora è un mesetto che non ci lavoro più, e meno male!” e poi, aggiungendo la frase sopra riportata: “sei proprio un a…….e di merda” (cfr. a pag. 5 del fascicolo delle indagini preliminari).
Vi sono inoltre altre affermazioni della (omissis) (come quella riferita al fatto di non avere ancora riscosso le retribuzioni arretrate) che riconducono univocamente al trascorso rapporto lavorativo tra lei e il Centro estetico gestito dal querelante.
Non vi sono perciò dubbi sulla riferibilità soggettiva degli scritti incriminati all’odierna imputata e che i pregressi rapporti professionali tra le parti abbiano costituito il movente per l’uso improprio del mezzo informatico di comunicazione in danno del decoro e della reputazione del proprio ex datore di lavoro contro cui erano diretti i pubblici “sfoghi” manifestati dalla (omissis) nel trattare l’argomento con altri soggetti partecipanti e facenti parte del medesimo gruppo di amici.
Ai fini della valutazione relativa alla configurabilità del reato di diffamazione in contestazione giova premettere brevi notazioni sul funzionamento del sito web denominato “Facebook” che oggi è considerato il più diffuso e popolare dei social network ad accesso gratuito, vale a dire una cosiddetta rete sociale in cui può essere coinvolto un numero indeterminato di utenti o di navigatori Internet che tramite questo sito web entrano in relazione tra loro pubblicando e/o scambiandosi contenuti che sono visibili altri utenti facenti parte dello stesso gruppo o comunque a questo collegati. All’interno di esso gli utenti possono creare propri “profili personali” su cui pubblicare fotografie, video, informazioni personali e liste di interessi e aderire ad un gruppo di cosiddetti “amici”. Per ciò che qui maggiormente rileva, Facebook consente agli utenti di fruire di alcuni servizi tra i quali l’invio e la ricezione di messaggi, rilascio di commenti, fino alla possibilità di scrivere sulla bacheca di altri amcii, decidendo di impostare diversi livelli di condivisione di tali informazioni. E’ evidente che gli utenti del social network sono consapevoli, e anzi in genere tale effetto non è solo accettato ma è indubbiamente voluto, del fatto che altre persone possano prendere visione delle informazioni scambiate in rete. Infatti, è nota agli utenti di “Facebook” l’eventualità che altri possano in qualche modo individuare e riconoscere le tracce e le informazioni lasciate in un determinato momento sul sito, anche a prescindere dal loro consenso: trattasi dell’attività di c.d. “tagging” che consente, ad esempio, di copiare messaggi e foto pubblicati in bacheca e nel profilo altrui oppure email e conversazioni in “chat”, che di fatto sottrae questo materiale dalla disponibilità dell’autore e sopravvive alla stessa sua eventuale cancellazione dal social network. L’uso di espressioni di valenza denigratoria e lesiva della reputazione del profilo professionale della parte civile integra sicuramente gli estremi della diffamazione alla luce del detto carattere pubblico del contesto in cui quelle espressioni sono manifestate, della sua conoscenza da parte di più persone e della possibile sua incontrollata diffusione tra i partecipanti alla rete del social network.
Lo specifico episodio in trattazione va più esattamente qualificato come delitto di diffamazione aggravato dall’avere arrecato l’offesa con un mezzo di pubblicità (fattispecie considerata al terzo comma dell’art. 595 c.p. e equiparata, sotto il profilo sanzionatorio, alla diffamazione commessa con il mezzo stampa).
Della diffamazione sussistono tutti gli estremi essenziali:
la precisa individuabilità del destinatario delle manifestazioni ingiuriose (nel caso di specie la (omissis) ha espressamente fatto riferimento al Centro Estetico (omissis) nel quale ha lavorato come dipendente);
la comunicazione con più persone alla luce del cennato carattere “pubblico” dello spazio virtuale in cui si diffonde la manifestazione del pensiero del partecipante che entra in relazione con un numero potenzialmente indeterminato di partecipanti e quindi la conoscenza da parte di più persone e la possibile sua incontrollata diffusione;
la coscienza e volontà di suare espressiioni oggettivamente idonee a recare offesa al decoro, onore e reputazione del soggetto passivo.
Si giunge agevolmente a ritenere che l’utilizzo di Internet integri l’ipotesi aggravata di cui all’art. 595, co. 3, cp.p. (offesa recata con qualsiasi altro mezzo di pubblicità), poiché la particolare diffusività del mezzo usato per propagare il messaggio denigratorio rende l’agente meritevole di un più severo trattamento penale.
Affermata conclusivamente la penale responsabilità dell’imputata in riferimento al reato a lei contestato, in ragione della sua incensuratezza e del concreto contesto da cui ha preso spunto il fatto nonché valutato il concreto grado del dolo, possono riconoscersi alla (omissi) le attenuanti generiche e quantificare la pena inq uella di € 1.000,00 di multa (per effetto della riduizione di un terzo per effetto della scelta del rito).
All’accertamento del reato consegue ex lege la condanna dell’imputato al risarcimento dei danni in favore della parte civile nei termini di cui al dispositivo che segue:
P.Q.M.
Visti gli artt. 438 e ss., 533 e 535, c.p.p.
DICHIARA
(omissis) colpevole del reato a lei ascritto e concesse le attenuanti generiche, la
CONDANNA
alla pena di € 1.000,00 di multa.
Visti gli artt. 163 e 175, c.p.
CONCEDE
all’imputata i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna sul certificato del casellario giudiziale a richiesta dei privati.
Visto l’art. 538 c.p.p.
CONDANNA
(omissis) a risarcire il danno sofferto dalla parte civile costituita, (omissis) che si liquida in € 3.000,00 oltre interessi di mora al tasso legale dalla odierna liquidazione al saldo oltre alla rifusione delle spese di costituzione di parte civile che si liquidano in complessive € 1.500 oltre IVA e CAP di legge.
Motivazione entro giorni 90.