Chiunque commissioni l’esecuzione di lavori ha l’obbligo di imporre l’osservanza degli obblighi di sicurezza e di adottare tutte le cautele idonee ad evitare ogni rischio per il lavoratore la cui condotta omissiva non può essere considerata quale unica causa dell’eventuale infortunio. In caso di inosservanza delle cautele da parte del lavoratore incaricato, il committente deve rifiutarsi di stipulare il contratto o di proseguire nella sua esecuzione, chiedendone l’immediata risoluzione.

(Nella specie la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso contro le sentenze di primo e secondo grado che imputavano una pena di otto mesi per omicidio colposo al proprietario di un appartamento ritenuto responsabile della morte dell’operaio, lavoratore autonomo, contattato per la pittura dei soffitti).

 

Corte Cassazione Penale, sezione quarta – Sentenza n. 42465/2010

Prevenzione degli infortuni sul lavoro – Responsabilità – In caso di prestazione autonoma (d’opera), il committente di lavori edili da svolgersi nella sua abitazione è responsabile dell’attuazione delle norme di sicurezza nei confronti del lavoratore autonomo, da non considerarsi l’unico responsabile della sua sicurezza.

 

RILEVATO IN FATTO

La Corte di Appello di (OMISSIS) ha confermato la sentenza di condanna pronunziata dal Tribunale di (OMISSIS) Sezione di (OMISSIS) che ha ritenuto A. O. responsabile del delitto di cui all’art. 589 c.p. e, ritenute le concesse attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, lo ha condannato alla pena di otto mesi di reclusione.

L’imputato A. ha proposto ricorso per cassazione per ottenere l’annullamento del provvedimento appena sopra menzionato.

All’udienza pubblica del 9/7/2010 il ricorso è stato deciso con il compimento degli incombenti imposti dal codice di rito.

RITENUTO IN DIRITTO

La contestazione addebita all’ A. di aver cagionato per colpa la morte di F. M. perchè, in qualità di committente di lavori edili da svolgersi nella sua abitazione, consentiva al F., da lui incaricato, di svolgere i detti lavori in assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare i rischi di caduta dall’alto (le indagini avevano individuato lo svolgimento di attività lavorativa ad altezza superiore ai metri due), sicchè il F., in occasione del lavoro assunto, precipitando da una impalcatura non munita di parapetti con le cautele di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 27 e non essendo provveduto di cintura di sicurezza, veniva a morte il 31/7/2001.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata per:

1. Nullità della sentenza di primo grado ex artt. 521 e 522 c.p.p., per mancata correlazione tra colpa contestata sotto il profilo omissivo improprio, riferita al D.P.R. n. 547 del 1955 e D.P.R. n. 164 del 1956, e quella ritenuta in definitiva sotto il profilo di colpa specifica per affermata responsabilità anche in relazione alle norme di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994 e D.Lgs. n. 494 del 1996 e all’elemento di riferimento dei relativi obblighi in capo all’imputato;

1 b) Nullità della sentenza di appello ex artt. 597, 521 e 522 c.p.p., per ulteriore mancata correlazione ex se tra colpa specifica contestata e quella ritenuta in definitiva in relazione a diversi nuovi profili dei decreti legislativi citati;

2. inosservanza della legge penale. Erronea e mancata applicazione delle altre norme giuridiche rilevanti (art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione agli artt. 40 e 42 c.p.; e al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 e al D.Lgs. n. 494 del 1996 nonchè al D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 con conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1;

2 b) manifesta illogicità della motivazione relativa alla ritenuta caduta del lavoratore dall’impalcatura con conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

3. inosservanza ed erronea applicazione della legge penale (con riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. b), artt. 40 e 42 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 e conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

4. Subordinata assenza di motivazione e comunque manifesta illogicità di quella eventualmente ravvisabile in ordine alla ritenuta mancanza di verifica dell’idoneità tecnica del lavoratore autonomo (art. 606 c.p.p., lett. b), con violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

5. Inosservanza dell’art. 40 c.p. in ordine al nesso di causalità tra l’eventuale ritenuta inidoneità e l’evento per come correttamente ricostruibile con conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

6. manifesta illogicità della motivazione relativa alla ritenuta caduta del lavoratore dalla impalcatura (art. 606 c.p.p., lett. e) con conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1).

In subordine il ricorrente denunzia:

a) Illogicità manifesta della motivazione relativa alla applicata equivalenza delle circostanze;

b) Inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 539 e 2697 c.c., art. 606 c.p.p., lett. b), mancanza di motivazione;

c) Illogicità manifesta della motivazione per apparenza della stessa (606 c.p.p., lett. e)).

Il ricorso è infondato nella sua interezza e deve essere rigettato con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Si deve premettere che la sentenza impugnata accerta motivatamente una caduta del lavoratore, avvenuta il (OMISSIS), in occasione e a causa di lavori svolti, da una altezza di “non meno di m. 3,50” e comunque a “due metri”, a fronte di una qualità accertata come autonoma della prestazione resa dal lavoratore che la sentenza di appello definisce lavoratore subordinato di altro datore di lavoro. La sentenza accerta la mancanza di cinture di sicurezza, di casco e di impalcature, queste ultime sostituite invece da “alcune tavole inchiodate” “senza parapetto” raggiungibili per mezzo di “una scala di ferro” nonchè, e infine, la mancanza di qualsiasi altro presidio di sicurezza. Ancora la sentenza ritiene che l’ A. abbia svolto i lavori in economia senza avere preventivamente verificato la idoneità del lavoratore non iscritto in alcun albo artigiano o ad alcuna lista della Camera di commercio, senza nominare un direttore dei lavori e dunque assumendosi interamente il maggior rischio di una così fatta organizzazione.

Tanto premesso, la prima censura deve essere rigettata.

Già la sentenza del Tribunale ha richiamato gli obblighi di cui al D.Lgs. n. 494 del 96 e D.Lgs. n. 626 del 1994 e già l’imputato aveva proposto in appello censura per mancata correlazione tra colpa contestata e colpa diversa ritenuta.

La motivazione di appello ha illustrato per più profili la assenza di qualsiasi violazione dell’art. 522 c.p.p., ponendo a base della percorso motivazionale la certa persistenza della identità tra fatti contestati e fatti ritenuti, la piena esplicazione dei diritti di difesa rispetto alla chiara certezza dei fatti contestati, la corrispondenza della espressione “in qualità di committente” contenuta in rubrica, alla regolazione di cui al D.Lgs n. 626 del 1994 e D.Lgs. n. 494 del 1996 che di quella qualità espressamente si occupano, la comprensività della contestazione “in assenza di qualsivoglia cautela” alle specifiche violazioni cautelari dettagliate in sentenza, la irrilevanza della eventuale aggiunta di un profilo di colpa a quelli tutti contestati.

Il testo della sentenza impugnata individua esplicitamente le norme che identificavano la posizione di garanzia dell’ A. in quelle che imponevano l’utilizzo di impalcature e l’uso di casco e cintura per le lavorazioni in altezza ed altrettanto esplicitamente menziona il D.Lgs. n. 626 del 1994 nonchè il D.Lgs. n. 494 del 1996. La corrispondenza tra norme indicate in contestazione e norme assunte a perimetrare la colpa addebitata, non può essere negata come invece fa il ricorso. La corrispondenza tra concatenazione causale produttiva della morte individuata in rubrica e concatenazione causale produttiva della morte individuata in motivazione è piena ed egualmente innegabile. La doverosità delle condotte omesse è riassunta, nell’uno e nell’altro testo, nella assenza di qualsiasi cautela atta a scongiurare i rischi di caduta dall’alto (considerata la doverosità di cautele per lavori ad altezza superiore ai metri uno e cinquanta disciplinata dal D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 27 o quella di cautele necessarie solo per lavori ad altezze maggiori ritenuta da norme sostanzialmente più favorevoli all’imputato di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 34) qualificata ulteriormente come violazione delle norme poste a tutela della sicurezza del lavoro sia nella forma di lavoro subordinato che nella forma di lavoro autonomo.

Il richiamo di altra normativa utile a confermare la ricorrenza della colpa contestata e ritenuta (D.P.R. n. 547 del 1955 nonchè D.Lgs. n. 626 del 1994 e D.Lgs. n. 494 del 1996) costituisce ridondanza motivazionale e non anche violazione dell’art. 522 c.p.p.. Il nucleo decisivo della motivazione impugnata accerta la omissione di cautele suggerite anche solo dal buon senso e dalla parametrazione delle misure essenziali previste per la prevenzione degli infortuni nell’edilizia e per il lavoro subordinato fino al 1996 con quelle concretamente omesse nel caso che ne occupa.

Anche la censura sopra indicata come 1 b) deve essere rigettata.

Ribadita la separazione poco sopra operata tra nucleo centrale della motivazione e argomenti ridondanti, separazione che impone di escludere ogni utilizzo diretto del D.Lgs. n. 626 del 1994 e D.Lgs. n. 494 del 1996, resta la coincidenza tra fatti e titoli di delimitazione delle condotte doverose operata in rubrica con fatti e titoli di delimitazione delle condotte doverose operata in motivazione. Per completezza resta da rilevare che la unitaria tutela del diritto alla salute indivisibilmente operata all’art. 32 Cost.; art. 2087 c.c., L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 1, comma 1 impone la utilizzazione dei parametri di sicurezza stabiliti espressamente per il lavoratori subordinati nell’impresa, per ogni altro tipo di lavoro. Tale indivisibilità delle tutele è evidente nella loro progressiva estensione a forme di lavoro equiparate e a situazioni di istruzione (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 3, comma 2) e nella progressiva amplificazione del campo di applicazione delle norme antinfortunistiche anche oltre la organizzazione di impresa (D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, artt. 1 e 2) fino all’esercizio dell’artigianato (D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, artt. 1 e 4 come inciso da Corte Cost. 26/7/1988 n. 880) agli associati in partecipazione (art. 4 sopra menzionato come inciso da Corte Cost. 15/7/1992 n. 332).

In una lettura diacronica della legislazione alluvionale in tema di tutela della salute (e dunque di perimetrazione delle posizioni di garanzia identificabili nel sistema delle leggi) questa Corte (Cass. Pen. Sez. 4, ud 10/11/2009 Gazzotti e altri imp) ha già affermato che le misure apprestate dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626 a tutela della salute per la sicurezza dei lavoratori durante il lavoro, in tutti i settori di attività privati e pubblici, costituiscono il sistema di protezione più ampio che la strumentazione giuridica attraverso i suoi metodi definitori possa realizzare. Invero il D.Lgs. n. 626 del 1994 appresta protezione per il diritto alla salute e per la sicurezza dei lavoratori dipendenti di un imprenditore che svolgono attività di lavoro nell’ambito della sua organizzazione di impresa, per i lavoratori impiegati da imprese appaltatrici che lavorino all’interno di una azienda o di una unità produttiva, per i lavoratori autonomi affidatari di lavori all’interno di una azienda o di una sua unità produttiva D.Lgs. n. 626 del 1994, ex art. 7.

La legge penale modula dunque la figura del datore di lavoro e la assunzione di obbligazioni di garanzia coerenti alle tutele di legge, su una pluralità di modelli di lavoro in settori pubblici e privati, di lavoro subordinato direttamente utilizzato e di lavoro subordinato contrattato con terzi, di lavoro subordinato e di lavoro autonomo certamente eccedente la sola figura del lavoro subordinato come è fatto chiaro dalla lettera del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 7 e come, a livello di assetto di sistema, consegue alla moltiplicazione delle forme di lavoro introdotta con la legislazione dei primi anni 2000 (a partire dai D.Lgs. del settembre 2003). La formula utilizzata dal D.Lgs. n. 626 del 1994 supera la ristrettezza della definizione della rubrica del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 3 che, peraltro, nella combinazione (art. 3, commi 1 e 2 dello stesso DPR) tra definizione di lavoratore subordinato e lavoratore equiparato al lavoratore subordinato agli effetti della applicazione della normativa antinfortunistica, già dal 1955 evidenzia la erroneità della tesi di diritto secondo la quale l’ordinamento positivo italiano appresta la tutela della salute per i soli lavoratori subordinati.

In ogni caso la costante giurisprudenza di questa Corte ha tenuto ben fermo che per chiunque gestisce imprese, opifici, cantieri, oltre alla obbligazione di garanzia relativa ai lavoratori dipendenti dell’imprenditore o comunque presenti nei luoghi di lavoro per causa di lavoro, si aggiunge una ulteriore obbligazione di garanzia verso chiunque acceda a quegli impianti, obbligazione correlata agli obblighi specifici di sicurezza che cautelano le attività organizzate ma anche agli obblighi generali di non esporre alcuno a rischi generici o ambientali (Cass. 14/7/2006 n. 30587 citata dallo stesso ricorrente) derivati dalla attività del soggetto gravato per legge per contratto o per assunzione di fatto, dalla obbligazione di garanzia.

Il secondo motivo di censura deve essere rigettato con il richiamo delle considerazioni sopra già svolte in punto di regole cautelari specifiche e generiche applicabili, e delle considerazioni in tema di individuazione della posizione di garanzia del proprietario (committente) che affida lavori edili in economia a lavoratore autonomo di non verificata professionalità e in assenza di qualsiasi apprestamento di presidi anticaduta a fronte di lavorazioni in quota superiore ai metri due. Le considerazioni svolte configurano come errata la tesi in diritto secondo la quale in caso di prestazione autonoma (d’opera) il lavoratore autonomo sia comunque l’unico responsabile della sua sicurezza. Contro le tesi di ricorso deve aggiungersi che l’evidenza del rischio a cui il lavoratore fu concretamente esposto (assenza di qualsiasi presidio di sicurezza per lavori in quota superiore a metri 2) delinea al meglio le omissioni addebitate e puntualmente accertate a carico del proprietario committente.

La censura di cui al punto sopra indicato come 2 b) deve pure essere rigettata. La censura propone una ricostruzione in fatto alternativa a quella motivatamente assunta dalla sentenza impugnata che con corretto governo delle regole dell’argomentazione e con critica valutazione di tutti i dati raccolti (valutazione operata anche con compiuta e non contraddittoria considerazione delle altezze di tutte le piattaforme utilizzate) e delle pur dissonanti valutazioni peritali acquisite al processo ha concluso che il lavoratore subì una precipitazione da altezza superiore a due metri con un accertamento in fatto non censurabile in sede di legittimità.

La censura indicata come n. 2 è egualmente da rigettare perchè erroneamente – secondo quanto si è fin qui affermato- nega che il committente avesse alcuna obbligazione, al tempo del fatto contestato ((OMISSIS)), in ordine alla salute e alla sicurezza del lavoratore autonomo incaricato di opera dall’imputato.

Anche la censura di cui al n. 3 relativa alla erronea applicazione degli artt. 40 e 42 c.p., D.P.R. n. 547 del 1955, art. 27 e conseguente violazione dell’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1, deve essere rigettata.

Invero la sentenza impugnata ha accertato con ragionevole certezza la altezza del punto di precipitazione e la identificazione della catena causale che lega la morte conseguente a precipitazione alla assenza di presidi anticaduta nonchè, ad un tempo, la causalità della colpa che consente di attribuire alle omissioni addebitate – nei limiti che sopra si è detto- al committente che non onorò le obbligazioni rivenienti dalla sua posizione di garanzia già sopra identificata.

La censura di cui al n. 4 è infondata perchè ampia, costruita attraverso le regole della logica sillogistica giudiziaria, è la motivazione che lega la scelta dei lavori in economia al dato della mancata nomina di un direttore dei lavori o di un responsabile tecnico all’altro dato dell’utilizzo di lavoratore non iscritto in alcun elenco professionale (artigianato o camera di commercio) per concludere che l’insieme di tali opzioni, in una alla mancanza di qualsiasi verifica di idoneità del lavoratore (meramente sostituita dall’invio di costui su richiesta del committente e su indicazione di un geometra) è prova della assenza di verifica di idoneità professionale del lavoratore autonomo scelto.

La quinta censura è da rigettare perchè la adeguata motivazione sulla omessa verifica della professionalità del dipendente è solo un episodio proprio dell’insieme di omissioni tutte accomunate nel giudizio di assenza della adozione a cura del committente di qualsiasi presidio antinfortunistico. Tale episodio è utilizzato dalla sentenza impugnata in punto di ricostruzione del contesto omissivo nel quale maturò l’infortunio mortale. Peraltro ancora una volta la censura proposta contro l’accertamento del fatto ritenuto in sentenza, al di là della formula usata per qualificarla, si pone come una proposta di riesame del merito certamente non ammissibile in sede di legittimità.

La sesta censura è pure da rigettare perchè ancora una volta si sollecita la rivalutazione di un accertamento correttamente operato dal giudice del merito così da escludere qualsiasi possibilità di utilizzare l’art. 530 c.p.p., comma 2 e art. 533 c.p.p., comma 1.

Avendo la ricostruzione di sentenza superato qualsiasi contraddizione e attinto una compiuta certezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

Le censura subordinate sono egualmente da rigettare.

La censura in ordine alla motivazione del giudizio di equivalenza tra le circostanze è aspecifica.

La censura in ordine alla inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 539 c.p.p. e art. 2697 c.c., è egualmente da rigettare.

La discutibile distinzione tra danno evento e danno conseguenza inappropriata a fronte della violazione di una norma giuridica posta a tutela della vita degli individui non è adeguata a cancellare la esistenza certa di un danno monetizzabile e risarcibile (salva la verifica del suo ammontare) in ogni caso di morte cagionata per inosservanza di norme ordinamentali, sicchè il fatto principale da provare non richiede l’applicazione del criterio di riparto dell’onere della prova certamente indispensabile in ordine ai fatti (secondari) derivati da quella morte.

E’ infine infondata la censura relativa al carattere apparente della motivazione che, al di là del dissenso del ricorrente, ha fornito ampia dimostrazione delle ragioni poste a base della statuizione adottata.

Il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 


 

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