Cass. civ. Sez. II, 23/07/2010, n. 17322

In tema di condominio, il condomino può usucapire la quota degli altri senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso; a tal fine, però, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, bensì occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene stesso attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere “uti dominus” e non più “uti condominus”, senza opposizione, per il tempo utile ad usucapire. (Rigetta, App. Roma, 04/07/2008).

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

F.M.C., F.S. e M.C., rappresentati e difesi, giusta procura speciale a margina del ricorso, dall’Avvocato FESTA Tito, presso lo studio del quale in Roma, viale dell’Oceano Atlantico n. 37/h, sono elettivamente domiciliati;

– ricorrenti – contro

F.R.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma, depositata il 4 luglio 2008, notificata il 6 ottobre 2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27 maggio 2010 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

sentito, per i ricorrenti, l’Avvocato Tito Festa; sentito, per l’intimata, l’Avvocato Enrico Egidio Falcolini;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. RUSSO Rosario Giovanni, il quale ha aderito alle conclusioni della relazione ex art. 380 bis c.p.c.

 

Svolgimento del processo e motivi della decisione

Ritenuto che la Corte d’appello di Roma ha rigettato il gravame proposto da F.M.C., F.S. e M. C. avverso la sentenza del Tribunale di Roma in data 29 gennaio 2004, che aveva respinto la domanda con cui la prima quale nuda proprietaria e gli altri quali usufruttuari dell’appartamento sito nella scala (OMISSIS), avevano chiesto che venisse dichiarato il loro acquisto, per usucapione ventennale, del diritto di mantenere una veranda sul terrazzo al livello del loro appartamento;

 

che la Corte d’appello, dopo aver rilevato che la qualificazione della domanda, come volta ad ottenere il riconoscimento di una servitù di appoggio della tettoia sulla facciata di proprietà condominiale, non aveva formato oggetto di censura ed era quindi ormai irretrattabile, ha ritenuto che la valutazione del Tribunale in ordine alla mancanza di prova del possesso ultraventennale fosse corretta, e alle argomentazioni addotte dal primo giudice ne aggiungeva delle altre, basate sulle risultanze della prova testimoniale e sul rilievo che mancava la prova dei passaggi traslativi dell’immobile che consentisse di considerare utile anche il possesso dei danti causa dei danti causa degli attori;

 

che, per la cassazione di questa sentenza, F.M.C., F.S. e M.C. hanno proposto ricorso sulla base di quattro motivi;

 

che, con il primo motivo, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt.. 102 e 354 c.p.c., rilevando che, dalla qualificazione della domanda quale servitù di appoggio sulla facciata condominiale, sarebbe dovuta conseguire la integrazione del ccntraddittorio nei confronti di tutti i condomini di via (OMISSIS);

 

che i ricorrenti formulano quindi il seguente quesito di diritto:

 

“se, rilavata la non integrità del contraddittorio necessario. ai sensi dell’art. 101 c.p.c., la Corte d’appello avrebbe dovuto dichiarare la nullità assoluta e insanabile del giudizio di primo grado e della pronuncia emessa all’esito di esso, rimettendo, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., gli atti al Tribunale per l’integrazione del contraddittorio nei confronti delle parti pretermesse ed il rinnovo del giudizio. Conseguentemente, vetrificatasi la violazione delle norme sul litisconsorzio necessario, non rilevata dal giudice di primo grado, che non ha disposto l’integrazione del contraddittorio, nè dal giudice di appello, che non ha provveduto a rimettere la causa al giudice di primo grado, se codesta Corte deve disporre l’annullamento, anche d’ufficio( delle, pronunce emesse, con rinvio della causa al giudice di prime cure, ai sensi dell’art. 383 c.p.c., u.c.”;

 

che, con il secondo motivo, i ricorrenti deducono violazione dell’art. 1142 c.c., in relazione all’art. 157 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), rilevando che la convenuta F.R., nel costituirsi in giudizio, non ebbe a contestare che la veranda fosse già in loco, con le attuali caratteristiche, già alla data del 29 ottobre 1967, nè la continuità del possesso, avendo ella incentrato le proprie contestazioni sul fatto che :.i manufatto era antigienico e antiestetico e realizzato in violazione delle distanze dalle proprie finestre;

 

che, pertanto, in mancanza di contestazione da parte della convenuta, la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere necessaria la prova della esistenza della tettoia alla, data indicata e della continuità del possesso, anche perchè, operando la presunzione di possesso ex art. 1142 c.c., l’onere probatorio si inverte , con. la conseguenza che incombe a chi contesti detta continuità offrire la relativa prova;

 

che a conclusione del motivo i ricorrenti formulano il seguente quesito: “Se in mancanza di una specifica contestazione ai sensi dell’art. 167 c.p.c., comma 1, dei fatti costitutivi del diritto dedotto dai ricorrenti, e risultando dagli atti di causa la continuità del possesso di questi ultimi, sia legittimo, in riferimento alla presunzione di cui all’art. 1142 c.c., escludere il compimento del termine ad usucapionem”;

 

che, con il terzo motivo, i ricorrenti deducono insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento all’affermazione della sentenza impugnata secondo cui la prova testimoniale non avrebbe dato adeguate conte degli elementi costitutivi dell’usucapione;

 

che, in proposito, i ricorrenti osservano che, una volta provato che il manufatto in ferro con copertura fu realizzato nel 1955, che con tali caratteristiche era senz’altro esistente nel 1963 – 1964 e successivamente nel 1970, allorquando l’immobile fu acquistato dalla dante causa dei ricorrenti medesimi, non vi era ragione per la quale lo stato dei luoghi avrebbe dovuto essere diverso tra il 1963 e il 1970, e in ogni caso la Corte d’appello non avrebbe adeguatamente motivato sul punto;

 

che, con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, con riferimento alla affermazione della Corte d’appello secondo cui dalla deposizione della teste S. non emergerebbe con certezza la identità delle modalità di esercizio della servitù oggetto della domanda di usucapione, avendo detta teste riferito che nel 1978 il manufatto subì delle modificazioni;

 

che, in particolare, la Corte d’appello non avrebbe spiegato per quale ragiona abbia ritenuto cha dalla deposizione in esame poteste desumersi una intervenuta modificazione e non anche in mero consolidamento;

 

che l’intimata F.R. ha depositato, in data 23 marno 2008, un atto denominato controricorso, che non risulta essere stato notificato ai ricorrenti;

 

che, essendosi ritenute sussistenti le condizioni per la decisione con il procedimento di cui all’art. 380 bis c.p.c., è stata redatta relazione ai sensi di tale norma, che è stata notificata alle parti e comunicata al pubblico ministero.

 

Considerato che deve preliminarmente rilevarsi che l’intimata ha depositato un atto denominato controricorso, sul quale risulta opposta una procura al difensore;

 

che tale atto, peraltro, non risulta essere stato notificato ai ricorrenti;

 

che, in tale contesto, l’intimato non può ritenersi costituito nel giudizio di legittimità e il suo difensore non poteva ritenersi legittimato a partecipare alla discussione in pubblica udienza, non essendo egli investito di una valida procura speciale, se non per discutere della ritualità della procura;

 

che trova infatti applicazione, nel caso di specie, il principio per cui, “nel giudizio di cassazione, il controricorso deve essere notificato alla controparte ai sensi dell’art. 370 c.p.c., non potendosi considerare sufficiente il nero deposito presso la corte perchè l’atto possa svolgere la sua funzione di strumento di attivazione del contraddittorio rispetto alla parte ricorrente, la quale, solo avendone acquisito legale conoscenza, è in condizioni di presentare le sue osservazioni nelle forme” ex art. 378 c.p.c.; ne consegue che, ove la notifica sia stata omessa, l’atto non è qualificabile come controricorso e la procura speciale, rilasciata in calce od in margine allo stesso, non è valida, dovendosi ritenere priva di efficacia l’autenticazione del difensore, il cui potere certificativo è limitato agli atti specificamente indicati nell’art. 83 c.p.c., comma 3, e al quale, pertanto, resta preclusa la partecipazione alla discussione del ricorso (Cass., n. 22928 del 2008; Cass., n. 1737 del 2005);

 

che il relatore designato, nella relazione depositata il 12 marzo 2010, ha formulato la seguente proposta di decisione:

 

“… Sussistono le condizioni per la trattazione del ricorso in camera di consiglio, essendo il ricorso inammissibile.

 

Inammissibile è infatti il primo motivo, in quanto “la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari, e di provarne l’esistenza, ma anche quello di indicare, se l’eccezione è proposta per la prima volta in cassazione, gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano l’eccezione” (Cass., n. 3688 del 2006; Cass., n. 1632 del 1996). La non integrità del contraddittorio, infatti, “è rilevabile, anche d’ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e, quindi, anche in sede di giudizio di legittimità, nel quale la relativa eccezione può essere proposta, anche per la prima volta, nel solo caso in cui il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano ex se dagli atti del processo di merito, senza la necessità di nuove prove a dello svolgimento di ulteriori attività; in tal caso, tuttavia, la parte che eccepisce la non integrità dal contraddittorio ha l’onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l’esistenza, ma èanche quello di indicare gli atti dal processo di merito quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione” (Cass… n. 25305 del 2008).

 

Nel caso di specie, i ricorrenti, che hanno proposto la questione solo in sede di legittimità, non hanno adempiuto a tale onere, il che rende il motivo inammissibile.

 

Il secondo motivo è del pari inammissibile perchè non inficia la ratio decidendo, posta a fondamento della sentenza impugnata. Nel mentre, infatti, la Corte d’appello ha rilevato che mandava la prova della continuità del possesso tra i danti causa degli attuali ricorrenti, e che vi era. un salto negli atti di trasferimento dell’immobile, in particolare proprio con riferimento all’anno (1967) nel quale, tenuto conto del rilievo che l’atto interruttivo del possesso ad usucapionem era costituito dalla citazione del 29 ottobre 1967, il possesso avrebbe già dovuto essere in atto, il motivo e il quesito posto a sintesi dello stesso postulano, invece, l’accertamento di un fatto, la continuità del possesso, che la Corte l’appello ha positivamente escluso sulla base delle risultanze documentali, e della prova testimoniale. Inoltre, la questione avrebbe dovuto essere dedotta con specifico motivo di gravame, atteso che già il Tribunale aveva escluso, per quanto emerge dalla sentenza impugnata, la sussistenza della prova del decorso del termi ne ventennale utile ai fini dell’usucapione, non riscontrabile nè dagli elementi documentali nè dalle deposizioni testimoniali, laddove della questione di uno specifico motivo di gravame incentrato sulla asserita violazionedell’art. 167 c.p.c., non risulta traccia nella sentenza impugnata e i ricorrenti non deducono un vizio di omessa pronuncia sul punto.

 

Quanto al terzo e al quarto motivo, si deve rilevare che manca nella esposizione dei motivi il momento di sintesi di cui all’art. 366 bis c.p.c., comma 2. Trova quindi applicazione il principio per cui nella norma dell’art. 366 bis c.p.c., “nonostante la mancanza di riferimento alla conclusività (presente, invece, per il quesito di diritto), il requisito concernente il motivo di cui al n. 5 del precedente art. 360 – cioè la chiara indicazione del fatto controverso in relazione; al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione della sentenza impugnata la rende inidonea a giustificare la decisione – deve consistere in una parte del motivo che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata, di modo che non è possibile ritenerlo rispettato allorquando solo la completa lettura della complessiva illustrazione del motivo riveli, all’esito di un’attività di interpretazione svolta dal lettore e non, di una indicazione da parte del ricorrente, deputata all’osservanza del requisito del citato art. 366 bis, che il motiva stesso concerne un determinato fatto controverso, riguardo al quale si assuma omessa, contraddittoria od insufficiente la motivazione e si indichino quali sono le ragioni per cui la motivazione è conseguentemente inidonea sorreggere la decisione.

 

(Cass., n. 16002 del 2007; Cass.. S.U.r n. 20603 del 2007; Cass., n. 8897 del 2008)”;

 

che il Collegio condivide la proposta di decisione ora richiamata, non apparendo le osservazioni svolte dai ricorrenti nella memorie ex art. 378 c.p.c., idonee ad indurre ad une diversa conclusione;

 

che, invero, ad integrazione delle argomentazioni svolta nella relazione, si deve rilevare che la sentenza impugnata ha ritenuto che le deduzioni svolte nella citazione introduttiva del giudizio non erano sufficienti ad evidenziare nè cha vi sarebbe stata una intervensione dell’animus del compossesso sul bene comune (la facciata condominiale in corrispondenza del terrazzo in proprietà esclusiva), tale da palesare ai condomini la volontà di rendera definitivo l’uso fattone, nè la sussistenza di tutti gli elementi dai quali deriverebbe l’unione del possesso dagli attori con quello dei danti causa;

 

che i ricorrenti, nel mentre hanno censurato la sentenza impugnata per tale secondo profilo, non hanno impugnato la considerazione relativa al difetto di prova di un possesso esclusivo, uti dominus e non uti condominus, della servitù di appoggio, tale da manifestarsi come ius ad excludendum: nei confronti degli altri condomini e tale, in quanto non contestata, in detta sua manifestazione, da determinare l’usucapione della servitù a carico del bene comune;

 

che se è vero, infatti, che il condomino può usucapire la quota degli altri condomini senza che sia necessaria una vera e propria interversione del titolo del possesso mediante comportamento oppositivo, esercitando il potere di fatto sul bene in termini di esclusività, è pur vero che, a tal fine, non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, occorrendo altresì che colui il quale opponga all’azione di reintegrazione dagli altri promossa nei suoi confronti in proprio possesso esclusivo, alleghi e dimostri d’aver godute del bene stesso in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare un’inequivoca volontà di possedere uti dominus e non più uti condominus senza opposizione per il tempo utile ad usucapire (Cass, n. 13747 del 2002);

 

che, dunque, non essendo stata impugnata l’indicata ragione di rigetto della domanda, idonea a giustificare da sola la decisione della Corte d’appello, difetta l’interesse dei ricorrenti a far veliere le altre ragioni, con conseguente inammissibilità del ricorso per inammissibilità dei motivi;

 

che trova, infatti, applicazione il principio per cui nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non sol: che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positive nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scope proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una e l’altro sorreggano. Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass., S.U., n. 16602 del 2005);

 

che, peraltro, appare opportuno ulteriormente chiarire, con riferimento al secondo motivo, che l’art. 1158 c.c. pone, tra gli elementi costitutivi dell’usucapione, il protrarsi continuativo del possesso per il previsto periodo, onde l’attore od il convenuto che intendano farsela riconoscere sono onerati della prova di tale continuità ed il giudice, a sua volta, tale continuità deve accertare in quanto condizione per l’accoglimento della domanda o dell’eccezione;

 

che, pertanto, se è vero che al possessore il quale deduce, così in agendo come in exipiendo, l’intervenuta usucapione giova la presunzione di possesso intermedio pesta dall’art. 1142 c.c. – per la quale si determina un’inversione dell’onere della prova, non essendo l’attore od il convenuto tenuti a dimostrare la continuità del possesso ma la controparte, che neghi essersi, verificata l’usucapione, tenuta a dimostrarne l’intervenuta interruzione è pur vero che, ove il difetto della continuità del possesso risulti ex actis dalla produzione stessa della parte che quella continuità invoca, il giudice, pur ove l’interruzione non sia stata dedotta dalla controparte ed anche nella contumacia di questa, non può esimersi dal rilevare il difetto d’una condizione d’accoglibilità dell’azione risultante appunto ex actis giacchè, in tal caso, non esorbita, dall’ambito della potestas iudicandi in violazione dell’art. 112 c.p.c. rilevando un fatto che avrebbe dovuto formare oggetto d’eccezione ad iniziativa della controparte interessata, bensì si limita a constatare il difetto, risultante appunto dagli stessi e elementi di giudizio fornitigli dalla parte interessata, di una delle condizioni necessarie all’accoglimento della domanda o dell’eccezione – in altri termini, non pone a fondamento della decisione reiettiva della domanda, o dell’eccezione d’usucapione la prova d’un fatto interruttivo della continuità del possesso ma l’originario difetto d’una valida allegazione di tale continuità (Cass., n. 13921 del 2002);

 

che, in conclusione, alla luce delle argomentazioni svolte nella relazione e di quella ora svolte dal Collegio, il ricorso deve essere rigettato;

 

che, una volta accertata la inesistenza del controricorso e la inidoneità della procura apposta in calce all’atto depositato dalla ricorrente a legittimare il difensore alla partecipazione alla discussione, non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

 

 

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso.

 

 

Comments

  1. walter

    La sentenza è interessante e presenta molte analogie al mio caso. Si tratta di terreno (o corte), regolarmente recintato, curato e posseduto in via esclusiva da oltre 30 anni, a cui vi si accede solo attraversando il mio alloggio. Inoltre, tale terreno è una vera e propria pertinenza dell’alloggio in quanto è riportato nella planimetria allegata al mio rogito, su cui però è scritto a mano “corte comune”. Nel mio rogito è, altresì, inserita una dichiarazione dei venditori attestante il loro esclusivo e continuato possesso dal 1982. Ho fatto l’aggiornamento catastale, ex DL 78/2010, ed ora il lotto risulta in planimetria “corte esclusiva”. Dovendo rivendere l’alloggio di cui sopra, il notaio del compratore esige che si faccia prima l’istanza di usucapione, mentre il tecnico ed il mio avvocato ritengono che basti solo l’aggiornamento catastale. Come devo regolarmi? Grazie.

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