Al fine di tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio od al godimento collettivo, ovvero sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale. Viceversa, incombe sul condomino, che ne afferma la proprietà esclusiva, darne la prova. La comunione condominiale dei beni di cui all’art. 1117 c.c. (quale nella fattispecie il cortile oggetto di causa) è, infatti, presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso. Al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Ne deriva che, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni.

CHIEDI UNA CONSULENZA

 

Corte d’Appello Genova Sezione 2 Civile Sentenza 7 febbraio 2018 n. 214

Parti comuni ex art. 1117 c.c. – Tutela – Prova a carico del condominio – Presunzione della comunione

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE D’APPELLO DI GENOVA

SEZIONE SECONDA

nelle persone dei magistrati:

dottor Carmela ALPARONE – Presidente

dottor Riccardo REALINI – Consigliere

dottor Valeria ALBINO – Consigliere relatore

riuniti in camera di consiglio,

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

nella causa d’appello contro la sentenza n. 161/2015 del Tribunale della Spezia emessa in data 23/2/2015 promossa da:

Condominio di Via (…), in persona dell’amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in La Spezia Via (…) presso e nello studio dell’Avv. Ma.Gi., che lo rappresenta e difende in forza di delega a margine dell’atto di citazione in primo grado,

APPELLANTE

contro

(…) e (…), rappresentati e difesi dagli Avv.ti Tu. ed Ed.Tr., in forza di mandati apposti in ogni fase e grado del procedimento in calce alle copie dell’atto di citazione

APPELLATI

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza impugnata, il Tribunale della Spezia ha respinto la domanda proposta dal Condominio di via (…) diretta a sentir accertare la proprietà condominiale dell’area cortilizia retrostante il fabbricato, cui si accedeva anche dall’androne condominiale e identificata al N.C.E.U. del Comune della (…) al fg. (…) part. (…) e (…) e a sentir condannare i convenuti (…) e (…), proprietari del fondo sito in via (…), in ragione della indebita occupazione dell’area, a rimuovere le opere realizzate, quali la recinzione in rete e canniccio, la pavimentazione cementizia. Il Tribunale qualificava la domanda come azione di rivendicazione, e affermava che nonostante il rigoroso onere probatorio gravante sul Condominio (cd. probatio diabolica), nessuna prova era stata da questi fornita della proprietà condominiale dell’area. Neppure la disposta CTU aveva fornito elementi utili per attribuire la proprietà dell’area all’una o all’altra parte, avendo anche accertato che altri proprietari confinanti avevano accesso all’area e che l’area non poteva essere ritenuta solo condominiale. Condannava quindi parte attrice al pagamento delle spese di lite e di CTU.

Avverso la predetta sentenza proponeva appello il Condominio lamentando:

1. che il Tribunale aveva errato nella qualificazione della domanda che aveva ad oggetto, in via incidentale, l’accertamento della proprietà e, in via principale, l’accertamento della condotta illecita dei convenuti ai sensi dell’art. 1102 cod. civ., poiché l’attrazione del bene nella sfera di disponibilità esclusiva rappresentava utilizzo non consentito al singolo condomino;

2. l’area in questione era indicata come condominiale negli atti di acquisto; vi erano impianti di scarico comune, vi si accedeva dall’androne condominiale ed era destinata pacificamente a dare aria e luce al fabbricato, assolvendo alla funzione di cortile, con conseguente presunzione di condominialità, che in quanto tale si sottraeva alla cd. probatio diabolica;

3. l’area rientrava tra i beni comuni ex art. 1117 c.c., ed erano gli appellati a dover dare prova della loro esclusiva proprietà.

Si sono costituiti (…) e (…), contestando la domanda, chiedendo il rigetto dell’appello e la conferma della sentenza impugnata.

All’udienza collegiale del 31/10/2017 la causa, sulle conclusioni di cui in epigrafe, è stata trattenuta in decisione dalla Corte, previa concessione dei termini per conclusionali e repliche.

MOTIVI DELLA DECISIONE

L’appello è fondato e va accolto.

L’oggetto del contendere è rappresentato da un’area cortilizia retrostante il fabbricato del Condominio di via (…) appellante, su cui ha accesso diretto il predetto Condominio dal vano scale condominiale (cfr. pag. 4 CTU svolta in primo grado e foto n. 12 allegata alla CTU). Il Condominio di via (…) ha chiesto accertare che l’area in questione è stata indebitamente occupata dagli appellati e sentirli condannare a rimuovere le opere di recinzione da loro apposte, con restituzione dell’immobile nel godimento condominiale.

Occorre dire che nella prima difesa, ossia in comparsa di risposta, gli appellati (…) e (…) hanno dichiarato di essere condomini e non hanno contestato la natura di bene comune del cortile di cui è causa, affermando, in particolare, che essi, “nella loro qualità di proprietari ed usufruttuari del bene fondo terraneo sono condomini del Condominio di via (…) ed il predetto fondo fin dalla costruzione del fabbricato fu dotato di accesso con regolare uscita nel cortile comune retrostante così come l’androne del palazzo”. Nella comparsa responsiva, i convenuti richiamavano quindi giurisprudenza diretta a consentire al condomino di servirsi in modo esclusivo della cosa comune, ove le parti residue fossero sufficienti alle esigenze dei rimanenti partecipanti alla comunione. Neppure contestavano l’affermazione del Condominio attore secondo cui il loro atto di acquisto del locale (notaio Pa. 15.2.1999 trascritto presso la Cons. RR.II. della spezia in data 11.3.1999 reg. part. 1107), non prodotto da alcuno e solo indicato dal Condominio, trasferiva loro un solo fondo terraneo ad uso commerciale di mq 32 senza alcuna pertinenza esterna.

Seppure, l’azione si caratterizzi come azione di rivendica, posto che l’area oggetto della domanda non si trova nel possesso del rivendicante e seppure, anche volendo qualificare l’azione come di mero accertamento, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema, l’onere probatorio non muti anche per chi agisce con azione di accertamento (tenuto, al pari che per l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c., alla “probatio diabolica” della titolarità del proprio diritto, trattandosi di onere da assolvere ogni volta che sia proposta un’azione, inclusa quella di accertamento, che fonda sul diritto di proprietà tutelato “erga omnes” Cass. n. 1210/2017), occorre considerare che la vicenda di cui è causa si caratterizza per il fatto che il bene rivendicato è di natura condominiale e che la domanda, sulla base delle difese iniziali dei convenuti fatte proprie dal Condominio, risulta essere stata proposta contro un condomino. Sul punto, come è stato chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema (cfr. 2016/9035) “In tema di condominio negli edifici, per tutelare la proprietà di un bene appartenente a quelli indicati dall’art. 1117 c.c. non è necessario che il condominio dimostri con il rigore richiesto per la rivendicazione la comproprietà del medesimo, essendo sufficiente, per presumere la natura condominiale, che esso abbia l’attitudine funzionale al servizio o al godimento collettivo, e cioè sia collegato, strumentalmente, materialmente o funzionalmente con le unità immobiliari di proprietà esclusiva dei singoli condomini, in rapporto con queste da accessorio a principale, mentre spetta al condomino che ne afferma la proprietà esclusiva darne la prova”. Ciò in quanto la comunione condominiale dei beni di cui all’art. 1117 c.c., è presunta e, tale presunzione legale può essere superata dalla prova di un titolo contrario, che si identifica nella dimostrazione della proprietà esclusiva del bene in capo ad un soggetto diverso. Si è poi anche affermato che al fine di stabilire se sussista un titolo contrario alla presunzione di comunione di cui all’art. 1117 c.c., occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto. Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata a uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni”.

Nel caso di specie, occorre considerare, in primo luogo, che l’area di cui è causa, descritta con planimetria nella CTU del geom. Tu. e visibile nelle fotografie ivi allegate, può essere considerata un cortile, rientrante quindi nella previsione di cui all’art. 1117 c.c., a nulla rilevando che si trovi in posizione esterna al Condominio. Sul punto infatti secondo la Corte Suprema (cfr. Cass. n. 2532/2017) “il cortile, tecnicamente, è l’area scoperta compresa tra i corpi di fabbrica di un edificio o di più edifici, che serve a dare luce e aria agli ambienti circostanti. Ma avuto riguardo all’ampia portata della parola e, soprattutto alla funzione di dare aria e luce agli ambienti, che vi prospettano, nel termine cortile possono ritenersi compresi anche i vari spazi liberi disposti esternamente alle facciate dell’edificio – quali gli spazi verdi, le zone di rispetto, le intercapedini, i parcheggi – che, sebbene non menzionati espressamente nell’art. 1117 c.c., vanno ritenute comuni a norma della suddetta disposizione” (Cass. n. 7889 del 09/06/2000). L’area in questione, infatti, risponde alle caratteristiche delineate dalla giurisprudenza per essere considerata comune, trattandosi di area posta all’esterno dell’edificio condominiale, e destinata a dare aria e luce al predetto, oltre che funzionale all’accesso al condominio: “Ai fini dell’inclusione nelle parti comuni dell’edificio elencate dall’art. 1117 c.c., deve qualificarsi come cortile lo spazio esterno che abbia la funzione non soltanto di dare aria e luce all’adiacente fabbricato, ma anche di consentirne l’accesso” (cfr. Cass. n. 16241/2003). A nulla rileva il fatto che anche altri fondi e fabbricati abbiano accesso su tale area posto che, come sempre chiarito dalla giurisprudenza della Corte Suprema, la presunzione legale di comunione di talune parti di un edificio, stabilita dell’art. 1117 c.c., senz’altro applicabile quando si tratti di parti dello stesso edificio, può ritenersi applicabile in via analogica anche quando si tratti di parti comuni di edifici limitrofi ed autonomi, purché si tratti di beni oggettivamente e stabilmente destinati all’uso o al godimento degli stessi, come nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano (Cass. II nn. 7630/91; 4881/93; 9982/96), e più di recente (cfr. Cass. n. 17993/2010 e 21693/2014): “In tema di condominio degli edifici, la presunzione legale di comunione di talune parti, stabilita dall’art. 1117 cod. civ., trova applicazione anche nel caso di cortile esistente tra più edifici appartenenti a proprietari diversi, ove lo stesso sia strutturalmente destinato a dare aria, luce ed accesso a tutti i fabbricati che lo circondano”. Rispondendo, pertanto, il cortile in contestazione alla presunzione di cui all’art. 1117 c.c., erroneamente il Tribunale non ha ritenuto che il cortile oggetto della controversia fosse comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., anche in ragione del fatto che le parti convenute non avevano fornito alcuna convincente prova contraria atta a superare la presunzione di comproprietà, prova che doveva consistere o in un titolo contrario oppure in elementi oggettivi, certi ed univoci, atti a far ritenere che il cortile era destinato a loro servizio esclusivo, ma anzi ammettendo esplicitamente la natura comune dell’area. Risulta dagli accertamenti peritali che gli appellati hanno occupato un’area di circa mq 67, nella zona sud ovest, a ridosso del fondo degli appellati, ed ove gli stessi hanno una porta di accesso al locale stesso e dove è collocato, altresì, un servizio igienico in muratura (cfr. foto 8 e 11).

La Corte ritiene che la stabile occupazione di detta ampia parte dell’area comune da parte degli appellati, delimitata in parte da fioriere in plastica, in parte da un muretto in mattoni pieni a vista, piastrellata con quadroni in calcestruzzo prefabbricato non possa considerarsi espressione di un uso intensivo della cosa comune, ai sensi dell’art. 1102 c.c., tale da attrarre il bene nella sfera della proprietà esclusiva degli appellati e legittimare questi ultimi ad opporsi alla sua utilizzazione da parte del Condominio. Secondo i principi affermati in materia dalla giurisprudenza, infatti, poiché l’uso della cosa comune è sottoposto dall’art. 1102 c.c. ai due limiti fondamentali consistenti nel divieto per ciascun partecipante di alterarne la destinazione e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, esso non può estendersi alla occupazione di una parte del bene comune, tale da portare, nel concorso degli altri requisiti di legge, alla usucapione della parte occupata (Cass. 14-12-1994 n. 10699; Cass. 5-2-1982 n. 693). Le limitazioni poste dall’art. 1102 c.c. al diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune, rappresentate dal divieto di alterare la destinazione della cosa stessa e di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto, inoltre, vanno riguardate in concreto, cioè con riferimento alla effettiva utilizzazione che il condomino intende farne e alle modalità di tale utilizzazione, essendo, in ogni caso, vietato al singolo condomino di attrarre la cosa comune o una parte di essa nell’orbita della propria disponibilità esclusiva e di sottrarla in tal modo alla possibilità di godimento degli altri condomini (Cass. 28-4-2004 n. 8119; Cass. n. 4372/2015). Se pertanto deve ritenersi indiscussa la possibilità di utilizzo del cortile da parte degli appellati, tali utilizzo non può di certo spingersi fino ad impedire un pari utilizzo dell’area da parte degli altri condomini, impedimento attuato con la materiale delimitazione ben descritta dalla ctu. Ne consegue che in riforma della sentenza impugnata, dato atto della proprietà comune dell’area cortilizia retrostante il fabbricato e censita al NCEU della S. F. (…) part. (…) e (…), della inesistenza di alcun diritto di uso esclusivo degli appellati su detta area, gli appellati debbono essere condannati a rimuovere le opere realizzate a servizio del loro fondo, e segnatamente recinzione in rete e canniccio meglio descritte nella relazione CTU Geom. Tu., pavimentazione cementizia ed ogni altra opera che impedisca l’uso comune.

Va invece respinta la domanda di condanna degli appellati al risarcimento del danno che risulterà di giustizia per l’illegittima occupazione, stante la mancata allegazione di alcun tipo di pregiudizio. Infatti, l’occupazione indebita non è il danno, ma la condotta produttiva di esso, sicché competeva al danneggiato invocante il risarcimento del pregiudizio derivante dall’occupazione sine titulo provare di aver subito un’effettiva lesione patrimoniale per non aver potuto disporre del bene (ad esempio, per non aver potuto locare o altrimenti direttamente e tempestivamente utilizzare il bene, per aver perso l’occasione di venderlo a prezzo conveniente o per aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli, cfr. Cass. n. 15111/2013; Cass. n. 378/2005; Cass. n. 18494/2015).

Le spese di entrambi i gradi del giudizio, stante la parziale soccombenza, vengono compensate per 1/4, con condanna degli appellati, maggiormente soccombenti, al pagamento della residua frazione di 3/4, conformemente al D.M. n. 55 del 2014 e limitate, quanto al grado di appello, alla fase introduttiva, di studio e decisoria.

Le spese di CTU gravano invece interamente sugli appellati soccombenti, in via solidale fra loro, in quanto dirette alla descrizione dei luoghi e all’accertamento dei titoli di proprietà.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando nella causa d’appello contro la sentenza n. 161/2015 del Tribunale della Spezia emessa in data 23/2/2015 così decide:

– in parziale accoglimento dell’appello, dato atto della proprietà comune dell’area cortilizia retrostante il fabbricato e censita al NCEU della S. F. (…) part. (…) e (…), e della inesistenza di alcun diritto di uso esclusivo degli appellati su detta area, condanna gli appellati (…) e (…) a rimuovere le opere realizzate a servizio del loro fondo, e segnatamente la recinzione in rete e canniccio, le fioriere e il muretto in mattoni meglio descritti nella relazione CTU Geom. Tu. del 10/3/2014, la pavimentazione cementizia ed ogni altra opera che impedisca l’uso comune;

– respinge la domanda di condanna degli appellati al risarcimento del danno da illegittima occupazione;

– compensa le spese i lite di entrambi i gradi sino alla misura di 1/4, e condanna gli appellati (…) e (…), in solido fra loro, alla refusione dei restanti 3/4 in favore del Condominio, che liquida quanto al giudizio di primo grado, in tale ridotta frazione, in Euro 2.250,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa; e quanto al presente grado di appello, in tale ridotta frazione, in Euro 2.800,00, oltre spese generali, iva e cpa;

– pone le spese di ctu in via definitiva a carico degli appellati in solido fra loro.

Così deciso in Genova il 31 gennaio 2018.

Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2018.