L’accorpamento di un sottotetto con l’unità abitativa sottostante e la trasformazione di parte di una tettoia in terrazzino con realizzazione della relativa copertura comportano la modifica dell’originaria destinazione del locale sottotetto – costituente, di regola, un “volume tecnico”, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita ed avente un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione del fabbricato – con conseguente aumento della volumetria complessiva impiegabile ad uso abitativo.

 

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 8 aprile – 6 maggio 2014, n. 18709
Presidente Squassoni – Relatore Ramacci

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 9.7.2012 ha confermato la decisione con la quale, in data 6.10.2008, il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere aveva affermato la responsabilità penale di F.T. e M.A. in ordine ai reati di cui agli artt. 110 cod. pen., 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 83 e 95 d.P.R. 380/2001 perché, la prima quale proprietaria committente ed il secondo quale direttore dei lavori, realizzavano, in totale difformità dal permesso di costruire, la trasformazione di un sottotetto in unica unità abitativa con il piano sottostante e la trasformazione di una quota parte di una tettoia in terrazzino con costruzione ex novo della copertura. Inoltre, per aver eseguito le opere medesime in cemento armato senza progetto esecutivo, senza denuncia dei lavori al Genio Civile e senza la direzione dei lavori da parte di un tecnico competente ed, insistendo le stesse in zona sismica, per averle realizzate senza il previo deposito degli atti progettuali presso l’ufficio del Genio Civile competente (in (omissis) ).
Avverso tale pronuncia i predetti propongono congiuntamente ricorso per cassazione tramite il proprio difensore.
2. Con un primo motivo di ricorso deducono la violazione dell’art. 125 cod. proc. pen., lamentando la palese elusione dell’obbligo di motivazione, non avendo i giudici del gravame indicato le fonti di prova dalle quali hanno tratto il loro convincimento.
3. Con un secondo motivo di ricorso deducono la violazione dell’art. 31 d.P.R. 380/2001, rilevando che il sottotetto non sarebbe stato suddiviso in ambienti abitativi o comunque aventi detta attitudine, cosicché non vi sarebbe stata un’abusiva modifica della destinazione d’uso che avrebbe potuto legittimare la condanna.
4. Con un terzo motivo di ricorso deducono la violazione di legge, rilevando che le opere eseguite per dimensioni, consistenza, destinazione urbanistica, caratteristiche tipologiche, plano-volumetriche e di utilizzazione non sarebbero in contrasto con lo strumento urbanistico e potrebbero essere sanate, tanto è vero che sarebbe stata presentata domanda ai competenti uffici comunali.
Insistono, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

5. Il ricorso è inammissibile.
Occorre preliminarmente rilevare che il testo del ricorso per cassazione è perfettamente identico, per contenuti, agli atti di appello separatamente presentati da ciascun ricorrente, ad eccezione dell’ultimo periodo della prima metà della seconda pagina, ove viene richiesta la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Non viene quindi formulata alcuna specifica censura sulle motivazioni espresse dai giudici del gravame.
Tale circostanza, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., ex pl., Sez. V n. 28011,26 giugno 2013; Sez. II n. 19951, 19 maggio 2008, con richiami alle decisioni precedenti) determina la mancanza di specificità dei motivi, desumibile anche dalla mancanza di correlazione tra le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata e quelle sulle quali si fonda l’impugnazione ed è, da sola, sufficiente per una declaratoria di inammissibilità del ricorso.
6. Va in ogni caso rilevato, con riferimento al dedotto difetto di motivazione di cui al primo motivo di ricorso, che la Corte territoriale, ancorché sinteticamente, ha specificato le ragioni del proprio convincimento, rilevando come le doglianze mosse con l’atto di appello ponessero questioni già affrontate e risolte dal primo giudice, alla cui motivazione legittimamente si richiama.
La giurisprudenza di questa Corte ha, infatti, costantemente ritenuto che la motivazione per relationem effettuata dal giudice d’appello sia generalmente legittima e consenta al giudice di fornire adeguata giustificazioni delle ragioni poste a sostegno della pronuncia.
L’ambito di ammissibilità di una siffatta motivazione è stato, tuttavia, compiutamente delimitato, indicando in modo dettagliato entro quali limiti il giudice d’appello possa avvalersene.
Si è così precisato, in un primo tempo, come non sia necessario, per il giudice d’appello, esaminare nuovamente le questioni genericamente formulate nei motivi di gravame e sulle quali si sia già soffermato il giudice di prime cure, con argomentazioni esatte e prive di vizi logici, quando le censure mosse alla sentenza di primo grado non contengano elementi nuovi rispetto a quelli già esaminati e disattesi (Sez. IV n. 38824, 14 ottobre 2008; Sez. VI n. 31080, 15 luglio 2004; Sez. V n. 7572, 11 giugno 1999; Sez. V n. 4415, 8 aprile 1999),
È dunque consentito al giudice di appello uniformarsi, tanto per la ratio decidendi, quanto per gli elementi di prova, agli stessi argomenti valorizzati dal primo giudice, specie se la loro consistenza probatoria sia così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione (Sez. V n. 39080, 15 ottobre 2003; Sez. V n. 3751, 23 marzo 2000).
In tale circostanza, ciò che si richiede al giudice del gravame è, in definitiva, una valutazione critica delle argomentazioni poste a sostegno dell’appello, all’esito della quale risulti l’infondatezza dei motivi di doglianza (cfr. Sez. IV n.16886, 20gennaio 2004).
Tali argomentazioni sono state ulteriormente ribadite, osservando che la conformità tra l’analisi e la valutazione degli elementi di prova posti a sostegno delle rispettive pronunce nelle sentenze di primo e secondo grado determina una saldatura della struttura motivazionale della sentenza di appello con quella del primo giudice tale da formare un unico, complessivo corpo argomentativo (Sez. VI, n. 6221, 16 febbraio 2006).
L’individuazione dei limiti di legittimità della motivazione per relationem trova un ulteriore punto fermo nell’obbligo del giudice d’appello di argomentare sulla fallacia, inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione in presenza di specifiche censure dell’appellante sulle soluzioni adottate dal giudice di primo grado, poiché il mero richiamo in termini apodittici o ripetitivi alla prima pronuncia o la semplice reiezione delle censure predette determina un evidente vizio di motivazione (Sez. VI n. 28411, 1 luglio 2013; Sez. VI n. 17912, 18 aprile 2013; Sez. VI n. 49754, 20 dicembre 2012; Sez. III n. 24252, 24 giugno 2010; Sez. VI n. 12148, 19 marzo 2009; Sez. IV n. 38824, 14 ottobre 2008; Sez. VI, n. 35346, 15 settembre 2008; Sez. VI 6221/06 cit).
Nella fattispecie, la sentenza di primo grado aveva indicato, quali elementi dimostrativi della illiceità dell’intervento, le dichiarazioni testimoniali e la documentazione acquisita nel fascicolo del dibattimento (relazione tecnica e rilievi fotografici).
La Corte territoriale, nel richiamare le conclusioni del primo giudice, ha rilevato come la effettiva trasformazione dell’originaria destinazione d’uso fosse stata dimostrata dalle dichiarazioni rese dal tecnico comunale, escusso come teste all’udienza del 6.10.2008.
Dunque, le questioni sottoposte ai giudici del gravame non presentavano comunque alcun significativo elemento di novità e non richiedevano pertanto, alla luce dei principi in precedenza richiamati, un nuovo esame in sede di appello, ove la Corte si è del tutto legittimamente riportata alla motivazione del primo giudice con le puntualizzazioni ritenute necessarie, tra le quali si rinviene anche quella concernente la necessità del titolo abilitativo per la realizzazione dell’intervento oggetto di imputazione.
7. Tale aspetto è trattato nel secondo motivo di ricorso, il quale, tuttavia, si caratterizza per l’assoluta genericità, in quanto i ricorrenti si limitano, con esso, a negare, del tutto apoditticamente che le opere eseguite avessero determinato la modifica dell’originaria destinazione d’uso del locale sottotetto e della tettoia, non essendo stati adibiti ad abitazione, senza null’altro aggiungere.
Va richiamato, a tale proposito, il contenuto dell’articolo 31 del d.P.R. 380/01, il quale precisa che sono interventi eseguiti in totale difformità dal permesso di costruire quelli che comportano la realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso per caratteristiche tipologiche, planovolumetriche o di utilizzazione da quello oggetto del permesso stesso, ovvero l’esecuzione di volumi edilizi oltre i limiti indicati nel progetto e tali da costituire un organismo edilizio o parte di esso con specifica rilevanza ed autonomamente utilizzabile.
La giurisprudenza di legittimità (Sez. III n. 3593, 27 gennaio 2009, non massimata sul punto; nello stesso senso, Sez. III n. 11956, 24 marzo 2011) ha chiarito che l’espressione “organismo edilizio” indica sia una sola unità immobiliare, sia una pluralità di porzioni volumetriche e la difformità totale può riconnettersi sia alla costruzione di un corpo autonomo, sia all’effettuazione di modificazioni con opere anche soltanto interne tali da comportare un intervento che abbia rilevanza urbanistica in quanto incidente sull’assetto del territorio attraverso l’aumento del c.d. carico urbanistico. Difformità totale può aversi, inoltre, anche nel caso di mutamento della destinazione d’uso di un immobile o di parte di esso, realizzato attraverso opere implicanti una totale modificazione rispetto al previsto.
Si è ulteriormente precisato che il riferimento alla “autonoma utilizzabilità” non impone che il corpo difforme sia fisicamente separato dall’organismo edilizio complessivamente autorizzato, ma ben può riguardare anche opere realizzate con una difformità quantitativa tale da acquistare una sostanziale autonomia rispetto al progetto approvato. La difformità totale si verifica allorché si costruisca “aliud pro alio” e ciò è riscontrabile allorché i lavori eseguiti tendano a realizzare opere non rientranti tra quelle consentite, che abbiano una loro autonomia e novità, oltre che sul piano costruttivo, anche su quello della valutazione economico-sociale.
8. Ciò posto, risulta evidente, dalla mera descrizione delle opere riportata nel capo di imputazione, l’avvenuta trasformazione dell’originaria destinazione d’uso, potendosi conseguentemente affermare che l’accorpamento di un sottotetto con l’unità abitativa sottostante e la trasformazione di parte di una tettoia in terrazzino con realizzazione della relativa copertura comportano la modifica dell’originaria destinazione del locale sottotetto – costituente, di regola, un “volume tecnico”, non computabile nel calcolo della volumetria massima consentita ed avente un rapporto di strumentalità necessaria con l’utilizzazione del fabbricato – con conseguente aumento della volumetria complessiva impiegabile ad uso abitativo.
9. Parimenti inammissibile risulta il terzo motivo di ricorso, anch’esso del tutto generico, essendosi i ricorrenti limitati ad affermare, ancora una volta del tutto apoditticamente, che le opere realizzate sarebbero sanabili perché conformi allo strumento urbanistico e che per le stesse sarebbe stata avviata la procedura di sanatoria, senza null’altro aggiungere.
Va rilevato, a tale proposito, che, in assenza di qualsivoglia specificazione, una tale evenienza non può essere comunque presa in esame in questa sede, così come non poteva tenerne conto la Corte territoriale.
Deve peraltro considerarsi che, ai sensi dell’art. 36, comma 3 d.P.R. 380/01, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale devono pronunciarsi entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata, cosicché detto termine, nella fattispecie, può ritenersi abbondantemente trascorso. Inoltre, come è noto, il permesso di costruire in sanatoria non produce effetti riguardo alle violazioni della disciplina antisismica e di quella sulle opere in cemento armato.
10. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità – non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa dei ricorrenti (Corte Cost. 7-13 giugno 2000, n. 186) – consegue l’onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di Euro 1.000,00 per ciascuno di essi.
L’inammissibilità del ricorso per cassazione per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e, pertanto, preclude la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 cod. proc. pen., ivi compresa la prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. Il n.28848, 8 luglio 2013).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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