L’art. 1122 cc.  vieta a ciascun condomino di poter eseguire, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio. Non v’e dubbio che il concetto di danno, cui la norma fa riferimento, non va limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma esteso anche al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili della cosa comune, anche se di ordine edonistico od estetico, per cui ricadono nel divieto tutte quelle modifiche che costituiscono un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato. Decoro da correlarsi non soltanto all’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato stesso e gli imprimono una determinata armonia, ma anche all’aspetto di singoli elementi o di singole parti dell’edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili per sé di considerazione autonoma. In altri termini, la voce di danno di cui all’art. 1122 e fa riferimento, non solo al pregiudizio per la sicurezza e la stabilità del fabbricato, deterioramento di parti comuni causato dai lavori (es. infiltrazioni), ma anche all’alterazione del decoro architettonico. Con l’ulteriore specificazione che il condomino, nell’eseguire opere su parti di sua proprietà, altera il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dello stabile al momento dell’opera, reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dell’intero fabbricato e delle unità immobiliari in esso comprese.

 

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 13 novembre 2013 – 3 gennaio 2014, n. 53
Presidente Triola – Relatore Scalisi

Svolgimento del processo

Il Condominio di via (omissis) con atto di citazione del 19 aprile 1989 convenivano in giudizio i coniugi O.A. e N.P. e, premesso che i convenuti avevano realizzato sul terrazzo di copertura due manufatti in profilato in ferro e pannelli ed avevano, altresì, aperto una finestra sul muro condominiale con affaccio sulla chiostrina, chiedevano al Tribunale di Roma la condanna dei medesimi al ripristino dello stato dei luoghi
Si costituivano i convenuti, contestando la domanda dell’attore.
Il Tribunale di Roma con sentenza n. 1092 del 2003 ritenuto che i manufatti arrecavano pregiudizio al decoro architettonico e possibile danno come ostacolo al deflusso delle acque piovane, condannava i convenuti alla demolizione dei manufatti realizzati, rigettava la domanda relativa alla nuova apertura, affermando che essa non violava i diritti degli altri condomini.
Avverso tale sentenza proponevano appello i coniugi O.A. e N.P. chiedendo che venisse dichiarata cessata la materia del contendere e comunque fosse rigettata la domanda di riduzione in pristino.
Si costituiva il Condominio chiedendo il rigetto dell’appello e proponendo appello incidentale, chiedendo la chiusura della finestra atteso che la stessa costituiva una veduta.
La Corte di appello di Roma con sentenza n. 4200 del 2006 rigettava l’appello principale e accogliendo l’appello incidentale condannava i coniugi O. – N. alla chiusura della finestra e condannava gli stessi al pagamento delle spese giudiziali del primo e del secondo grado del giudizio.
A sostegno di questa decisione la Corte di Roma osservava: a) che a sensi dell’art. 1120 cc, (erroneamente indicato come art. 1220 cc.) sono vietate le innovazioni che alterano il decoro architettonico del fabbricato e l’art. 8 del Regolamento condominale richiamando l’art. 1120 aggiunge che ove si rendessero necessarie innovazioni del genere è sempre necessaria l’autorizzazione dell’assemblea condominiale; b) nel caso in esame la violazione in concreto di detto decoro non solo era affermata dal CTU, sia pure con espressione in parte attenuate, ma risultava evidente dalle foto in atto ed era attestata dai condomini, i quali, negando il consenso alle richieste trasformazioni, avevano espresso una valutazione che le stesse avrebbero compromesso l’estetica del fabbricato; c) andava disposto la chiusura della finestra dato che la stessa aveva carattere di veduta e non di semplice luce.
La cassazione di questa sentenza è stata chiesta dai coniugi O.A. e N.P. con ricorso affidata a sette motivi, illustrati con memoria. Il Condominio di via (omissis) , regolarmente intimato, in questa fase non ha svolto attività giudiziale.

Motivi della decisione

1.- O.A. e N.P. denunciano:
a) Con il primo motivo (erroneamente indicato come primo) la nullità della sentenza o del procedimento per mancata pronuncia sull’eccezione preliminare di inammissibilità dell’appello incidentale: violazione dell’art. 112 cpc. Secondo i ricorrenti, l’amministratore si è costituito in giudizio di appello ed ha svolto contestuale appello incidentale con il patrocinio dell’Avv. Aldo Filipponi Battistelli. Il relativo mandato risultava conferito dall’amministratore pro tempore in calce alla copia notificata dell’atto di appello, epperò non risulta che l’amministratore fosse stato autorizzato dall’assemblea condominiale. Sennonché, specificano i ricorrenti, nonostante abbiano eccepito l’inammissibilità dell’avversa difesa per carenza di legittimazione ad agire dell’Amministratore, la Corte di Roma avrebbe omesso di pronunciarsi.
b) Con il secondo motivo (erroneamente indicato come terzo) i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1130 e 1131 cc. con conseguente inefficacia della procura alle liti, conferita dall’amministratore del condominio di via (omissis) e del connesso appello incidentale. Secondo i ricorrenti, nel caso di specie, non risulterebbe vi sia stata alcuna delibera assembleare che abbia conferito mandato all’amministratore pro tempore di costituirsi nel giudizio i appello e, soprattutto, di proporre appello incidentale alla sentenza di primo grado. D’altra parte, ove si dovesse ritenere che vi fosse una situazione di emergenza sarebbe tata necessaria una volontà assembleare di convalida dell’altrui operato, ipotesi, comunque, non avvenuta.
Pertanto, i ricorrenti formulano il seguente quesito di diritto: ai fini della corretta applicazione degli art. 1130 e 1131 cc. è legittima la costituzione in giudizio e l’appello incidentale svolto dall’Amministrazione di un Condominio in carenza sia di preventiva apposita autorizzazione e delibera assembleare, sia di successiva delibera di convalida degli atti compiuti?.
1.1.- Entrambi i motivi vanno esaminati congiuntamente per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi (per altro evidenziata dagli stessi ricorrenti) ed entrambi sono infondati.
È opportuno premettere che, come già ha avuto modo di affermare questa Corte Suprema in altra occasione (Cass. n. 2313 del 01/02/2010) alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma secondo, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 cod. proc. civ. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito, allorquando la questione di diritto, posta con il suddetto motivo, risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto.
Tuttavia, in ordine alla dedotta necessità di conferimento di una nuova autorizzazione all’amministratore per la proposizione dell’appello, va ricordato che nella giurisprudenza di questa S.C. è pacifico che la procura speciale al difensore, rilasciata in primo grado “per il presente giudizio” (o processo, causa lite ecc.) senza alcuna indicazione delimitativa, esprime la volontà della parte di estendere il mandato di appello, quale ulteriore grado in cui si articola il giudizio stesso e, quindi, implica il superamento della presunzione di conferimento solo per detto grado (cfr. da ultimo Cass. 13 novembre 2009 n. 24092). Solo ove la procura speciale al difensore sia stata rilasciata in primo grado “per il presente giudizio”, con lo specifico riferimento sia al grado che al Tribunale dinanzi al quale esso era pendente esprime l’inequivoca volontà della parte di limitare in tal senso il mandato, che, quindi, non può ritenersi esteso al grado di appello (Cass. 1 febbraio 2012 n. 1429).
Nella specie, quindi, il difensore nel giudizio di primo grado non aveva bisogno di ulteriore procura alle liti, da rilasciare dall’amministratore a seguito di una nuova autorizzazione.
Per quanto riguarda la dedotta inammissibilità dell’appello incidentale va ricordato che le Sezioni Unite di questa Corte con sentenza in data 14 settembre 2010 n. 19510, hanno ritenuto che il difensore dell’appellato può proporre appello incidentale anche nel caso in cui la procura sia stata apposta in calce alla copia dell’atto di citazione in appello.
2.- I ricorrenti lamentano ancora:
a) con il terzo motivo (erroneamente indicato come quarto) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1120 cc (erroneamente indicato dalla Corte di Appello come art. 1220 cc). Secondo i ricorrenti avrebbe errato la Corte di Roma nel ricondurre l’ipotesi in esame alla norma di cui all’art. 1120 cc. (erroneamente indicata come 1220 cc che disciplina le ipotesi di innovazioni sulle parti comuni, atteso che i manufatti oggetto della controversia sono stati realizzati su porzione di proprietà esclusiva. Piuttosto, il caso in esame andava ricondotto alla norma di cui all’art. 1122 cc. laddove espressamente prescrive che ciascun condomino sul piano o porzione di piano di sua esclusiva proprietà non può eseguire opere che rechino danni alle parti comuni dell’edificio.
Ciò posto, i ricorrenti concludono formulando il seguente quesito di diritto: in caso di realizzazione di un manufatto sul terrazzo di proprietà esclusiva di un condomino, è legittima l’applicazione dell’art. 1120 cc, anziché dell’art. 1122 cc che disciplina espressamente le ipotesi di opere nel piano o porzioni di piano di sua esclusiva proprietà?.
b) Con il quarto motivo, erroneamente indicato come quinto, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1122 cc.
Posto che i manufatti oggetto di controversia sono stati realizzati su proprietà esclusiva dei coniugi O. e N. , secondo i ricorrenti il caso in esame doveva essere analizzato sotto il profilo della violazione dell’art. 1122 cc. E ciò posto, secondo i ricorrenti i manufatti di cui si discute, non recano alcun danno all’edificio condominiale, né in senso materiale né in senso funzionale.
Per altro, specificano i ricorrenti, va preliminarmente chiarito che non sarebbe condivisibile un’interpretazione troppo ampia di danno, se non con il rischio di comprimere sine limine l’esercizio del diritto di proprietà. In particolare, estendere all’ipotesi generica di danno ex art. 1122 cc le fattispecie espressamente vietate dal diverso art. 1120 cc. significherebbe annullare la portata giuridica della norma e vanificare totalmente la sua ratio.
Ciò posto, i ricorrenti concludono formulando il seguente quesito di ritto: In applicazione dell’art. 1122 cc. è legittima la realizzazione di due piccoli manufatti sul terrazzo di proprietà esclusiva, che non recano danno materiale e/o funzionale alle parti comuni dell’edificio?
2.1.- Entrambi i motivi vanno esaminati congiuntamente per l’innegabile connessione che esiste tra gli stessi ed entrambi sono infondati.
Premesso che in termini pratici il risultato non muta sia che la situazione in esame sia riconducibile all’art. 1120 cc. – come vorrebbe la sentenza impugnata, o alla norma di cui all’art. 1122 cc. come vorrebbero i ricorrenti, per le ragioni di cui si dirà ed essenzialmente per il significato che la voce di danno ha nell’economia della disposizione di cui all’art. 1122 cc. che come vedremo richiama la norma di cui all’art. 1120 cc..
2.1.a) Va qui chiarito, richiamando un orientamento consolidato da questa Corte (che, per altro, la legge n. 220 del 2012, cc.dd. riforma del condominio, ha condiviso e tradotto in norma), che l’art. 1122 cc. (nella versione prima della modifica apporta dalla legge 11.dicembre 2012 n. 220, riferibile al caso in esame per ratione temporis) vieta a ciascun condomino di poter eseguire, nel piano o porzione di piano di sua proprietà, opere che rechino danno alle parti comuni dell’edificio. Non v’e dubbio che il concetto di danno, cui la norma fa riferimento, non va limitato esclusivamente al danno materiale, inteso come modificazione della conformazione esterna o della intrinseca natura della cosa comune, ma esteso anche al danno conseguente alle opere che elidono o riducono apprezzabilmente le utilità ritraibili della cosa comune, anche se di ordine edonistico od estetico (v. Cass. 27.4.1989, n. 1947), per cui ricadono nel divieto tutte quelle modifiche che costituiscono un peggioramento del decoro architettonico del fabbricato. Decoro da correlarsi non soltanto all’estetica data dall’insieme delle linee e delle strutture che connotano il fabbricato stesso e gli imprimono una determinata armonia, ma anche all’aspetto di singoli elementi o di singole parti dell’edificio che abbiano una sostanziale e formale autonomia o siano comunque suscettibili per sé di considerazione autonoma (v. Cass. 24.3. 2004, n. 5899). In altri termini, la voce di danno di cui all’art. 1122 e fa riferimento, non solo al pregiudizio per la sicurezza e la stabilità del fabbricato, deterioramento di parti comuni causato dai lavori (es. infiltrazioni), ma anche all’alterazione del decoro architettonico. Con l’ulteriore specificazione che il condomino, nell’eseguire opere su parti di sua proprietà, altera il decoro architettonico dello stabile se, tenendo conto delle caratteristiche dello stabile al momento dell’opera, reca un pregiudizio tale da comportare un deprezzamento dell’intero fabbricato e delle unità immobiliari in esso comprese.
2.1.b).- Pertanto sia l’art. 1120 cc e sia l’art. 1122 cc vietano le innovazioni che alterano il decoro architettonico del fabbricato. La sentenza impugnata, dunque, si è attenuta a questi orientamenti laddove dopo aver premesso che per decoro architettonico del fabbricato deve intendersi l’estetica data dalle linee e dalle strutture ornamentali che costituiscono la nota dominante ed imprimano alle varie parti dell’edificio nel suo insieme una determinata armonica fisionomia anche se non si tratti di edificio di particolare pregio artistico chiarisce che nel concreto la violazione del decoro architettonico del fabbricato oggetto del giudizio non solo era stata affermata dal CTU, sia pure con espressioni in parte attenuate, ma risultava evidente dalle foto in atti ed era stata attestata dai condomini che, negando il consenso alle richieste trasformazioni, hanno espresso la valutazione che le stesse avrebbero compromesso l’estetica del fabbricato. E di più, la Corte ha chiarito che il vulnus al decoro della facciata ha, pertanto, anche arrecato un danno economico in termini di deprezzamento all’intero edificio.
3.- Con il quinto motivo (erroneamente indicato come sesto) i ricorrenti lamentano la contraddittorietà e/o insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Secondo i ricorrenti la motivazione relativa alla violazione in concreto del decoro di cui si dice sarebbe insufficiente o contraddittoria. In particolare, sempre secondo i ricorrenti: a) quanto alla posizione assunta da altri condomini: l’unico dato certo risale al lontano 1989, allorquando le opere non erano state concluse e non erano state eseguite le ulteriori migliorie segnalate dal CTU. Epperò, per potersi parlare di danno, questo avrebbe dovuto essere reale e non meramente ipotetico, b) quanto al riferimento alle foto, la Corte ha affermato, in modo contraddittorio “quanto poi agli affermati lavori di miglioria su due manufatti gli stessi non sono provati né risulta dalle foto prodotte una sostanziale attenuazione della violazione del danno all’estetica del fabbricato; c) insufficiente sarebbe anche la motivazione relativa al vulnus al decoro della facciata perché tale affermazione era inconferente allo stato dei luoghi. Piuttosto, contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Roma, secondo sempre i ricorrenti, ciò che non risulterebbe affatto provato è proprio il presunto danno subito e lamentato dal Condominio.
3.1.- Il motivo è infondato.
Trattasi, all’evidenza, di censura di merito in ordine all’apprezzamento delle risultanze processuali e che suggerisce una soggettiva ricostruzione del fatto diversa da quella operata dalla Corte territoriale previo esame e valutazione degli elementi di causa, adducendo, quale insufficiente esame, una differente valutazione degli stessi elementi esaminati dalla Corte di merito e proponendo una diversa interpretazione sulla base di ipotetiche considerazioni desumibili dagli stessi fatti o da altri prospettati come importanti. Si tratta, pertanto, di censura che nel suo complesso investe l’accertamento del fatto che, in quanto correttamente eseguito dal giudice di merito, è insuscettibile di sindacato in sede di legittimità.
4.- Con il sesto motivo (erroneamente indicato come settimo) i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 1102 cc..
Avrebbe errato la Corte di Roma secondo i ricorrenti, nell’aver ritenuto illegittima la finestra aperta dagli stessi ricorrenti sul muro condominiale, nella parte interna dell’edificio dato che risulterebbe rispettata la destinazione del bene comune (muro perimetrale), non risulterebbe alterata la stabilità né il decoro dell’edificio e, neppure sarebbero lesi i diritti degli altri condomini.
Ciò posto, i ricorrenti concludono formulando il seguente quesito: è legittimo ai sensi dell’art. 1102 cc. aprire una finestra sul muro perimetrale di un edificio che affaccia sulla chiostrina interna, avente le medesime dimensioni e caratteristiche estetiche e di quelle già esistenti?
4.1- Il motivo è fondato e va accolto per le ragioni di cui si dirà.
Come è opinione diffusa in dottrina e nella stessa giurisprudenza di questa Corte, ai sensi dell’art. 1102 cc. gli interventi sul muro comune, come l’apertura di una finestra o di vedute, l’ingrandimento o lo spostamento di vedute preesistenti, la trasformazione di finestre in balconi, sono legittimi dato che tali opere, non incidono sulla destinazione del muro, bene comune ai sensi dell’art. 1117 c.c., e sono l’espressione del legittimo uso delle parti comuni. Tuttavia, nell’esercizio di tale uso, vanno rispettati i limiti contenuti nella norma appena indicata consistenti nel non pregiudicare la stabilità e il decoro architettonico dell’edificio, nel non menomare o diminuire sensibilmente la fruizione di aria o di luce per i proprietari dei piani inferiori, nel non impedire l’esercizio concorrente di analoghi diritti degli altri condomini, nel non alterare la destinazione a cui il bene è preposto e nel rispettare i divieti di cui all’art. 1120 cc. (pregiudizio alla stabilità e sicurezza del fabbricato, pregiudizio al decoro architettonico o rendere alcune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino). Per la stessa ragione – e come pure ha avuto modo di affermare questa Corte in altra occasione (Cass. sent. n. 20200/2005). Legittima è anche l’apertura di finestre su area di proprietà comune e indivisa tra le parti (cortili e chiostrina) che costituisce opera inidonea all’esercizio di un diritto di servitù di veduta sia per il principio nemini res sua servit che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti e, pertanto, sono beni fruibili dai condomini, cui spetta, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, con il solo limite posto dall’art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l’uso da parte degli altri proprietari.
Ora, la Corte di Roma non ha osservato questi principi ed ha errato nel ritenere che la finestra aperta dai coniugi O. – N. sul muro comune e prospiciente la chiostrina condominiale integrasse un’ipotesi di servitù a carico delle alloggi frontestanti mai costituita perché non accettata dai proprietari degli immobili serventi dato che non ha tenuto conto che l’apertura di finestre su area di proprietà comune e indivisa tra le parti (nel caso in esame su una chiostrina condominiale) non integra gli estremi di una costituzione di un diritto di servitù, ma utilizzazione della cosa comune, e come tale, di un bene di cui è anche proprietario, soprattutto per la considerazione assorbente che i cortili e le chiostrine comuni, assolvono alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti.
5.- Con il settimo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 112 cpc. per avere la Corte di Appello di Roma pronunciato oltre i limiti dell’appello incidentale.
Secondo i ricorrenti, La Corte di Roma avrebbe accolto l’appello incidentale avente ad oggetto l’apertura della luce-veduta, su un presupposto (costituzione di una servitù prima inesistente) totalmente estraneo al thema decidendi. In particolare, specificano i ricorrenti, il Condominio lamentava la lesione di un generico diritto alla privacy per le attività svolte nei bagni e nelle cucine prospicienti il cortile, la Corte di merito, invece, ha ritenuto che l’apertura della finestra realizzava un’imposizione di servitù.
5.1.- Il motivo è fondato, avendo già evidenziato che l’apertura di finestre su area di proprietà comune e indivisa tra le parti (cortili e chiostrina) non è un’opera idonea a creare un diritto di servitù di veduta per il principio nemini res sua servit, essendo il cortile o la chiostrina ed il muro perimetrale beni comuni e, dunque, anche di proprietà dell’autore della finestra.
In definitiva, va accolto il sesto e il settimo motivo del ricorso, vanno rigettati tutti gli altri, la sentenza impugnata va cassata per quanto di ragione e la causa rinviata ad altra sezione della Corte di appello di Roma, anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte accoglie il sesto e il settimo motivo del ricorso e rigetta gli altri.
Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte di Appello di Roma anche per il regolamento delle spese del presente giudizio di cassazione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *