L’azione ex art. 844 cod. civ. e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute sono azioni distinte ma, ciononostante, cumulabili tra loro. L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare. Nondimeno l’azione inibitoria ex art. 844 cod. civ. può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2043 cod. civ., nonché la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 cod. civ.
Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma é relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa.
Le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche determinano un’attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento, sicché non essendo applicabili i criteri dettati dall’art. 844 cod. civ. viene in considerazione unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’ari. 2043 cod. civ.; parimenti, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l’applicabilità, né dell’art. 844 c.c., né degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono l’accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II CIVILE – SENTENZA 23 maggio 2013, n.12828 – Pres. Bursese – est. Parziale
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e va respinto.
Prima di esaminare analiticamente i motivi di ricorso, appare opportuno richiamare i punti significativi della decisione impugnata. La Corte territoriale ha osservato che “la tutela della salute nei rapporti privati richiede accertamento, caso per caso, della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività per lo svolgimento della vita di ogni soggetto interessato. Nel caso concreto (…) l’accensione delle stufe collegate ai camini di cui si discute crea nell’abitazione dello Z. condizioni che superano la normale tollerabilità. Infatti il c.t.u., all’esito delle indagini svolte (…) ha accertato che nell’abitazione della Z. era presente un odore proveniente dai fumi di scarico in atmosfera dai comignoli posti sulla copertura del tetto della casa sottostante (…), monossido di carbonio (…) e ha concluso affermando che l’uso dei camini causarono inquinamento da sostarne chimiche all’interno dell’abitazione dello Z. ”.
Osserva, quindi, la Corte territoriale che “Le critiche mosse dall’appellante non scalfiscono le acquisizioni istruttorie del giudizio di primo grado e la corretta valutazione del Tribunale inevitabilmente discendente dalle prove raccolte: innanzitutto è agevole osservare che la presenta di odore è imprescindibilmente legata alla presenta della sostanza da cui l’odore stesso promana; la rilevazione di gas nocivo all’interno dell’abitazione, poi, indipendentemente dalla durata di tale accertamento, è indice della situazione di degrado che si crea nell’immobile dello Z. quando sono utilizzati i camini per cui è causa. Non è certo necessario, per integrare il superamento dei limiti della normale tollerabilità, la creazione di una condizione di provata nociuta (che nel caso in esame sarebbe esclusa dagli accertamenti dell’ASL competente) e quindi di effettiva lesione dell’integrità fisiopsichica: la tutela del diritto alla salute dell’appellato si concretizza anche nel diritto a condizioni di salubrità dell’ambiente in cui esplica la sua vita, e postula l’adozione dei provvedimenti idonei ad evitare che si verifichino condizioni che la pongano anche soltanto potenzialmente a rischio. In presenza di odori e gas nocivi, qualunque sia la loro concentrazione, in locali destinati alla abitazione e quindi, come esattamente rilevato dal Giudice di primo grado, in luoghi in cui si esplica la dimensione esistenziale prevalente dell’uomo costituisce, indubbiamente, violazione dei diritti (alla salute ed al libero godimento dell’immobile) fatti valere dallo Z. . (…) dispetto a questa situazione è del tutto ininfluente la eventuale regolarità della realizzazione dei camini di cui si discute: infatti, come opportunamente sottolineato dal Tribunale, la posizione delle due abitazioni è tale per cui anche l’eventuale innalzamento dei camini (nell’ipotesi di altezze non regolari) non risolverebbe il problema del convogliamento dei fumi derivanti dalla combustione verso l’abitazione degli appellati”.
2. – I motivi del ricorso.
2.1 – Col primo motivo di ricorso si deduce: “violazione e falsa applicazione degli artt. 1170 c.c., 844 c.c., 2043 c.c.. e 703 cpc, con riferimento all’art. 360 n. 3 cp.c. Omessa motivazione con riferimento all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ.”. Osserva il ricorrente che “la Corte d’Appello di Brescia, nella propria motivazione, sostanzialmente, fa esclusivo riferimento alla violazione del diritto alla salute, sostenendo la valenza della decisione del giudice di prime cure, che ha reputato l’accensione delle stufe alimentate con legna, collegate ai camini in discussione, come circostanza che determina la presenta di esalazioni, che superano la normale tollerabilità, nell’abitazione dei convenuti. La Corte, tuttavia, non ha motivato sul punto, pur sollevato, secondo cui il giudizio verte in tema di immissioni e non anche di diritto alla salute, per la cui tutela si sarebbe dovuta esperire azione risarcitoria avente carattere personale e non reale”. Rileva, altresì, il ricorrente che la tutela della lesione del diritto alla salute richiede una domanda autonoma e distinta (Cass. 1995 n. 1003, Cass. Sezioni unite 1998 n. 10186).
Viene formulato il seguente quesito: “Dica l’Ecc.mo Collegio della Suprema Corte se il diritto alla salute possa essere tutelato con l’azione di manutenzione del possesso esperita con riferimento alla violazione dell’art. 844 c.c. in tema di immissioni”.
2.2 – Il motivo è infondato quanto alla dedotta violazione di legge e inammissibile, e comunque infondato, quanto al dedotto vizio di motivazione.
Quanto alla violazione di legge, in via generale occorre osservare che questa Corte fin dall’arresto citato dal ricorrente (Sez. U, Sentenza n. 10186 del 15/10/1998, Rv. 519722), ha precisato gli stretti rapporti intercorrenti tra azione a tutela della proprietà in conseguenza di immissioni e azione a tutela delle lesioni al diritto alla salute in conseguenza di immissioni oltre il consentito ex artt. 2043 e 2058 cod. civ.. Al riguardo, ha affermato che “le propagazioni nel fondo del vicino che oltrepassino il limite della normale tollerabilità costituiscono un fatto illecito perseguibile, in via cumulativa, con l’azione diretta a farle cessare (avente carattere reale e natura negatoria) e con quella intesa ad ottenere il risarcimento del pregiudizio che ne sia derivato (di natura personale), a prescindere dalla circostanza che il pregiudizio medesimo abbia assunto i connotati della temporaneità e non della definitività” (Cass. n. 7420 del 2000 – Rv. 537210). Nella motivazione le Sezioni Unite, affrontando il tema del concorso delle azioni e della tutela apprestabile, hanno concluso come segue: “A conclusione del dibattito, può ritenersi consolidata in giurisprudenza la distinzione tra l’azione ex art. 844 cod. civ. e quella di responsabilità aquiliana per la lesione del diritto alla salute e, allo stesso tempo – ciò che maggiormente rileva in questa sede – l’ammissibilità del concorso delle due azioni. L’azione esperita dal proprietario del fondo danneggiato per conseguire l’eliminazione delle cause di immissioni rientra tra le azioni negatorie, di natura reale a tutela della proprietà. Essa è volta a far accertare in via definitiva l’illegittimità delle immissioni e ad ottenere il compimento delle modifiche strutturali del bene indispensabili per farle cessare (Cass., Sez. II, 23 marzo 1996, n. 2598; Cass., Sez. II, 4 agosto 1995, n. 8602). Nondimeno l’azione inibitoria ex art. 844 cod. civ. può essere esperita dal soggetto leso per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute, salvo il cumulo con l’azione per la responsabilità aquiliana prevista dall’art. 2043 cod. civ., nonché la domanda di risarcimento del danno informa specifica ex art. 2058 cod. civ. (Cass., Sez. Un. 9 aprile 1973, n. 999)”.
La Corte territoriale non ha fatto altro che applicare tale condiviso principio, ritenendo che gli odierni resistenti abbiano esperito l’azione inibitoria ex art. 844 cod. civ…. per conseguire la cessazione delle esalazioni nocive alla salute. Nessuna violazione di legge, quindi, ma soltanto applicazione della stessa in conformità a principi da tempo affermati da questa Corte.
Il dedotto vizio di motivazione risulta inammissibile, perché avanzato senza il necessario momento di sintesi richiesto dall’art. 366 bis, ratione temporis vigente, e comunque è infondato avendo la Corte di merito chiarito, per quanto sopra riportato, di aver ricondotto l’azione proposta nel solco dell’art. 844 cod. civ. a tutela del diritto alla salute.
3.1 – Col secondo motivo di ricorso si deduce: “Violazione o falsa applicazione dell’art. 844 cod. civ., del regolamento locale d’igiene della regione Lombardia punto 3.4.43 e dpr 1391/70 punti 6.15 e 6.17, con riferimento all’art. 360 n. 3 c.p.c.. Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c.” Osserva il ricorrente che la ‘normale tollerabilità’ non è un criterio assoluto, ma variabile. Il limite della normale tollerabilità, posto dall’articolo 844 codice civile, costituisce ‘criterio oggettivo’, da verificarsi in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo nel quale si svolge l’attività che si assume lesiva e degli interessi in conflitto, nonché alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo. L’indagine non può prescindere dalla condizione di luoghi, intesa sotto il profilo sociale e cioè in relazione al carattere delle attività normalmente svolte in una determinata zona. La collocazione dell’art. 844 nel capo secondo del codice civile testimonia come ‘dette norme siano state previste per disciplinare i rapporti tra proprietari dei fondi vicini, avendo presente la necessità di stabilire diritti ed obblighi reciproci dei proprietari di immobili’. Tale reciprocità non è stata considerata dalla Corte d’appello, che ha finito per ‘dare preminenza all’immobile dei ricorrenti, abbassando inopinatamente la soglia della normale tollerabilità, senza addurre alcuna giustificazione e senza apportare alcuna motivazione’. Sia il giudice di prime cure, sia la Corte territoriale hanno dato una lettura dell’articolo 844 codice civile, che ‘trasforma il concetto di tollerabilità in sinonimo di lesività dei diritti personali dei proprietari confinanti’, omettendo di considerare uno dei criteri che la norma impone di osservare: la valutazione dello stato dei luoghi. In particolare la Corte non aveva considerato che ‘le abitazioni sono situate in un Comune di montagna, dove le case sono normalmente a dislivello e dove tutti posseggono camini alimentati con legna da ardere o utilizzino cucine economiche funzionante a legna’. I giudici dei due gradi avevano ‘omesso di considerare che il criterio adottato dalla norma per operare il bilanciamento tra le diverse situazioni soggettive dei proprietari interessati è quello… della maggiore utilità sociale’. La previsione legislativa di un obbligo di sopportazione, in rapporto alla condizione dei luoghi, costituisce l’applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell’interesse comune, garantito dalla Costituzione in misura non minore del diritto alla salute’. Ad essere comparate devono essere le esigenze abitative dei due nuclei familiari, ‘esigenze aventi pari dignità’. Secondo il ricorrente, ‘non è stata tenuta in alcuna considerazione l’accertata mancanza di nociuta delle esalazioni, la conformità dei camini alle norme del regolamento locale di igiene ed il rispetto delle distanze legali’. Viene formulato il seguente quesito: “Dica l’Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se il parametro della normale tollerabilità di cui all’art. 844 c.c. debba avere carattere obiettivo o soggettivo; b) se il giudizio sulla tollerabilità o intollerabilità delle immissioni debba essere affidato a valutazioni condotte in termini relativi, rispetto allo stato dei luoghi; c) se il limite della normale tollerabilità posto dall’art. 844 c.c. debba essere stabilito in relazione alle condizioni dei luoghi, al contesto sociale e produttivo, nel quale si svolge l’attività che si assume lesiva, all’entità degli interessi in conflitto, nonché alle concorrenti abitudini della popolazione del luogo in cui l’emissione avviene; d) se il criterio della normale tollerabilità previsto dall’art. 844 II C.C. debba ritenersi operante non solo quando concorrano proprietà e produzione, ma anche tra situazioni soggettive dei proprietari, in relazione al principio della maggior utilità sociale e in rapporto alla condizione dei luoghi, in applicazione di un più ampio principio di solidarietà nell’interesse comune, costituzionalmente garantito; e) se il giudice, nella valutazione del criterio della normale tollerabilità, debba comparare il diritto alla salute con il diritto all’abitazione, tenendo conto dello stato dei luoghi, degli usi e delle abitudini locali e della regolarità delle fonti delle presunte emissioni lesive del diritto alla salute rispetto alle norme previste dal Regolamento locale di Igiene, della conformità edilizio – urbanistica dell’opera e del rispetto delle distante legali; f) se il Giudice possa porre a fondamento della sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare”.
3.2. – Il motivo è infondato. Il giudice di merito, nella sua valutazione, ha tenuto conto di tutte le argomentazioni esposte dal ricorrente (contrasto tra analoghe situazioni abitative, località montana, conformità dei camini alla disciplina edilizia ed al regolamento sanitario) e ha poi ha valutato se le esalazioni riscontrate rientrassero o meno nella ‘normale tollerabilità’ sulla base delle emergenze istruttorie, in particolare sulla base della espletata CTU.
Con riguardo al carattere relativo della nozione della tollerabilità (quesiti lettere da a ad è), la Corte territoriale non ha fatto altro che applicare i principi affermati da questa Corte (di recente con Cass. n. 3438 del 2010, Rv. 611513), secondo la quale “Il limite di tollerabilità delle immissioni non ha carattere assoluto ma é relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti; spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell’ambito della stessa”. La Corte, infatti, ha analizzato la specificità della situazione, nella quale l’uso dei camini del ricorrente, in relazione alla posizione dei relativi immobili, ove pure in regola con la normativa urbanistica e sanitaria, determinava il fenomeno delle immissioni, da valutarsi in concreto rispetto alla norma codicistica, restando solo da accertare il superamento della normale tollerabilità. È appena il caso di osservare, infatti, da un lato, che le immissioni conseguenti a violazioni delle norme pubblicistiche determinano “un’attività illegittima di fronte alla quale non ha ragion d’essere l’imposizione di un sacrificio, ancorché minimo, all’altrui diritto di proprietà o di godimento, sicché non essendo applicabili i criteri dettati dall’art. 844 cod. civ. viene in considerazione unicamente l’illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi secondo lo schema dell’azione generale di risarcimento danni di cui all’ari. 2043 cod. civ.” (Cass. n. 10715 del 2006, Rv. 590127) e che, dall’altro, il rispetto dei limiti imposti dalle norme pubblicistiche non ha rilievo nei rapporti tra proprietà, avendo invece rilievo solo con riguardo alla sfera pubblicistica. Tali disposizioni, infatti, non escludono l’applicabilità, né dall’art. 844 c.c., né degli altri principi che tutelano la salute nei rapporti interprivati, che richiedono l’accertamento caso per caso della tollerabilità o meno delle immissioni e della loro concreta lesività. Quindi, la Corte territoriale ha applicato correttamente i principi di diritto elaborati da questa Corte con riguardo alla applicazione dell’art. 844 cod. civ., nella sua interpretazione costituzionalmente orientata da tempo consolidatasi e, nel caso di specie, nel conflitto tra due proprietà e delle relative modalità di esplicazione del diritto (uso del camino e tutela della salute), ha correttamente ritenuto di dare la prevalenza a quest’ultimo per il maggior rilievo che assume la tutela della salute rispetto ad una delle possibilità modalità di fruizione e di godimento della proprietà privata.
Sicché non sussiste, come si è detto, la violazione di legge denunciata, restando generico il quesito articolato sub lettera f (se il Giudice possa porre a fondamento de Ih sua decisione situazioni di fatto difformi da quelle previste dalla norma che intende applicare).
Quanto alla cesura relativa al vizio di motivazione, essa risulta anche in questo caso inammissibile, per le medesime ragioni esposte nell’esame del primo motivo, ed, in ogni caso, infondata, trattandosi di valutazione (quella della ‘normale tollerabilità’) riservata al giudice e censurabile in cassazione solo sotto il profilo del vizio di motivazione, che nel caso in questione non sussiste.
Al riguardo, occorre, in proposito, precisare che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5), non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l’accertamento dei fatti, all’esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento. Di conseguenza il vizio di motivazione deve emergere – secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte. Cass. S.U. n. 13045/97 e successive conformi) – dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità (dall’art. 360 c.p.c., n. 5) – non equivale alla revisione del ‘ragionamento decisorio’, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata. Tale revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.
Né, ugualmente, la stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato, ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se – confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie – prendesse d’ufficio in considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso ‘sub specie’ di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il citato art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ. non conferisce alla Corte di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. (Cass. n. 4766 del 06/03/2006 – Rv. 587349).
In definitiva, le censure concernenti vizi di motivazione devono indicare quali siano i vizi logici del ragionamento decisorio e non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass. n. 12467 del 25/08/2003 – Rv. 566240). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 20322 del 20/10/2005 – Rv. 584541).
Nel caso in questione, il ricorrente non formula precise censure nei termini su indicati, ma si limita ad una propria valutazione del materiale istruttorio (CTU), prospettando una conclusione diversa da quella della Corte di merito.
4.1 – Col terzo motivo di ricorso si deduce: “Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’art. 360 n. 5 c.p.c.”.
Il ricorrente osserva che il CTU “concludeva per la irregolarità dei camini, in quanto, a suo giudizio, avrebbero dovuto sovrastare di un metro il colmo del tetto, sul presupposto che la documentazione fotografica allegata agli atti conferma che i camini non rispettano le prescrizioni del Regolamento di Igiene tipo, ex art. 53 L.R. 26.10.1981 n. 64 (norma che imponeva il sovrano di un metro dal colmo del tetto ai parapetti in presenta di ostacoli a distanza inferiore a 10 metri)”. Tale conclusione, ad avviso del ricorrente, è errata perché “il CTU applicava una norma del Regolamento Locale di Igiene non più in vigore, essendo stata superata dal successivo regolamento pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lombardia in data 25.10.1989 (in atti), il cui contenuto impone un sovralzo di 40 cm dal colmo del tetto, quando vi siano ostacoli a distanza inferiore di 8 metri. Soltanto quest’ultimo regolamento doveva essere considerato ai fini della valutazione della conformità dei camini de quibus alle prescrizioni vigenti, non quindi il Regolamento considerato dal C.T.U., in quanto abrogato, e, neppure la disposizione di cui al punto 6.15 dell’art. 6 del D.P.R. 1391 del 22.12.1970, a cui pure fa riferimento il perito d’ufficio, in quanto norma applicabile ai soli impianti termici (esclusi, quindi, per sua stessa ammissione, camini e stufe) di potenzialità superiore alle 30.000 kcal/h”.
Rivela il ricorrente ancora che ‘i camini sulla proprietà P. distano dall’abitazione dei ricorrenti più di 10 metri’ e conclude il motivo, osservando che in presenza di specifiche osservazioni delle parti, ‘il giudice del merito è tenuto a fornire un’adeguata motivazione così della sua adesione alle argomentazioni ed alle consequenziali conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, come del mancato ricorso ad un supplemento o ad un rinnovo della consulenza tecnica d’ufficio’.
4.2 – La questione del rispetto delle distanze, della regolarità urbanistica dell’immobile del ricorrente e della applicabilità della normativa sanitaria in materia, resta assorbita dalle considerazioni svolte nel rigetto del precedente motivo.
5.1 – Col quarto motivo di ricorso si deduce: “violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 342 e 345 CPC, con riferimento all’art. 360 n. 4 c.p.c.”. Osserva il ricorrente che “Gli appellati hanno formulato appello incidentale del seguente letterale il motivo per cui chiediamo la rimozione o quantomeno la chiusura dei camini a legna è dovuto al fatto che gli stessi sono abusivi in quanto mai approvati dalla Commissione Edilizia e ancor peggio mai progettati. Altro motivo è legato al fatto che lo stesso P. non ha sempre rispettato il divieto di utilizzo imposto dalla sentenza accendendo il camino in tarda serata in modo che nessun passante sulla strada potesse vedere il fumo, ad esclusione dello Z. , che tanto potrebbe fornire prove per testi’.
La Corte territoriale sul punto ha accolto l’appello incidentale così motivando: “La difficoltà della esecuzione di un ordine di astensione, rispetto a cui la reazione dell’ordinamento rischia di essere decisamente tardiva, giustifica pienamente la domanda”.
Secondo il ricorrente, si trattava di una domanda nuova, sulla quale non era stato accettato il contraddittorio, fondata su motivi privi di specificità e su affermazioni che risultavano non vere e comunque smentite dalla documentazione in atti (regolarità amministrativa dei camini).
Viene formulato il seguente quesito: “Dica l’Ecc.mo Collegio della Suprema Corte: a) se l’appellante incidentale, nel proporre l’appello, al fine di assolvere all’onere della specificazione dei motivi d’appello previsto dall’art. 342 cpc, debba esprimere articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado; b) se l’appellante incidentale, nel dedurre i motivi d’appello, debba comunque formulare espressa censura su un punto decisivo della controversia, sul quale il giudice di primo grado abbia omesso di pronunciarsi; c) se il giudice possa emettere una statuizione basando la decisione su fatti costitutivi dedotti per la prima volta in appello e/o su fatti costitutivi diversi da quelli dedotti, sforniti di prova”.
5.2 — Anche tale ultimo motivo è infondato, posto che il giudice d’appello, investito della questione dell’applicabilità al caso in questione dei principi civilistici in materia d’immissioni, non ha considerato le questioni, in tesi nuove, della conformità o meno dei camini alle prescrizioni pubblicistiche, avendo, come detto, fatto applicazione dei principi da tempo affermati da questa Corte al riguardo e sopra riportati. Né l’appello è carente di specificità, essendo sufficientemente indicate le ragioni della decisione impugnata e le richieste dell’appellante (appunto l’adozione di idonei strumenti atti ad evitare le immissioni). Né, ai fini della decisione in concreto resa per evitare le immissioni, la Corte territoriale ha fatto riferimento ai fatti, che, secondo il ricorrente, sarebbero stati dedotti dagli appellanti per la prima volta in appello. Richiesta di un provvedimento adeguato alla soluzione del problema, la Corte ha operato una scelta di merito, non censurabile in questa sede, perché adeguatamente motivata.
6. Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alle spese di giudizio, liquidate in 2.500,00 (duemilacinquecento) Euro per compensi e 200,00 (duecento) Euro per spese, oltre accessori di legge.