Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche – in particolare, costituito dalle leggi 9 gennaio 1989 n. 13 e 5 febbraio 1992 n. 104 – ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell’intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati – dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14 giugno 1989 n. 236 – fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d’immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/89, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
VI) Peraltro, il citato onere è stato correttamente assolto dall’amministrazione, che ha evidenziato l’esistenza del grave pregiudizio al bene tutelato, non inteso come danneggiamento fisico dell’immobile, bensì come rischio per il valore tutelato dall’apposizione del vincolo e, nella specie, i valori storici, artistici o estetici espressi dall’edificio.
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 18 dicembre 2012 – 29 gennaio 2013, n. 543
Presidente Maruotti – Relatore Scola
Fatto
I tre ricorrenti originari (condomini del fabbricato sito in Napoli, via (…)), signor L. M. e signora R. R. (comproprietari di un appartamento ubicato al terzo piano del suddetto stabile), nonché signor S. B. (proprietario di un diverso appartamento, sito al terzo piano dello stesso fabbricato) proponevano un originario ricorso per quanto qui di seguito esposto.
A) I primi due chiedevano il rilascio alla Soprintendenza dell’approvazione, ai sensi dell’allora vigente art. 23, d.lgs. n. 490/1999, per l’installazione di un ascensore nel cortile del fabbricato, inviando il relativo progetto, per l’esigenza di tutelare la condizione di portatrice di handicap della signora L. P., invalida al 100%, madre della signora R. e con essa convivente.
La Soprintendenza, con atto prot. n. 16170 del 28 luglio 2003, rilasciava parere negativo, che gli interessati impugnavano chiedendone l’annullamento: l’adìto T.a.r. di Napoli, con sentenza n. 11078/2004, accoglieva il ricorso annullando l’atto gravato.
La sentenza non veniva appellata e passava in giudicato.
B) I citati coniugi presentavano, in data 26.2.2009, istanza alla stessa Soprintendenza di autorizzazione ex art. 21 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, per la realizzazione del medesimo progetto d’installazione dell’ascensore, ripresentato con alcune integrazioni e lievi modificazioni: con atto prot. n. 699 del 28.09.2009, la Soprintendenza denegava nuovamente l’autorizzazione.
Seguiva il ricorso di primo grado n. 6949 del 2009 contro il suddetto provvedimento di diniego, nonché ogni altro atto connesso e comunque lesivo dei loro interessi, per violazione del giudicato di cui alla citata sentenza n. 11078 del 5.8.2004, in quanto il provvedimento gravato avrebbe riprodotto la medesima motivazione contenuta nel provvedimento con la stessa annullato; dell’art. 4, commi 3, 4 e 5, legge n. 13/1989, dell’art. 23 d.lgs. n. 490/1999, in connessione con l’art. 21, d.lgs. n. 42/2004; degli artt. 1 e ss., legge n. 104/1992; nonché eccesso di potere sotto diversi profili.
Gli interessati chiedevano, inoltre, il risarcimento del danno subìto.
Si costituivano in giudizio il Ministero per i beni culturali ed il Comune di Napoli, che resistevano al ricorso.
Interveniva ad opponendum il signor G. C. che eccepiva, fra l’altro, il difetto di legittimazione attiva del signor S. B..
C) L’adìto Tribunale amministrativo territoriale, con ordinanza n. 93/2010, <<Atteso che, ad un primo sommario esame, l’atto della Soprintendenza gravato reitera sostanzialmente i motivi già dichiarati illegittimi dalla sentenza del presente T.a.r. n. 11078 del 5.8.2004; considerato che, in ogni caso, il medesimo atto gravato evidenzia una carenza di motivazione non circostanziando, pur in presenza di esigenze relative a soggetto disabile, le ragioni di diniego che, ai sensi dell’art. 4, legge n. 13/1989, devono essere riconducibili ad un “serio pregiudizio del bene tutelato”, tenendo presente che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”; ritenuto, prima facie, che il provvedimento risulta altresì frutto di travisamento dei fatti ed irragionevolezza, in quanto indica tra le ragioni del diniego la necessità, per l’installazione dell’ascensore, del taglio del parapetto ed eventualmente della balconata in piperno al primo piano per l’accesso ai pianerottoli, quando dal progetto si evince che non è previsto alcuno smonto al primo piano e di conseguenza non è previsto il taglio della balaustra al medesimo piano; visto che al pericolo di danno prospettato in ricorso, anche connesso con le esigenze di tutela del soggetto disabile, si può ovviare mediante il riesame dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione, alla luce di quanto dianzi evidenziato, nonché del disposto motivazionale della sentenza n. 11078 del 5 agosto 2004, entro e non oltre quaranta giorni dalla data di comunicazione (o notificazione, se anteriore) della presente ordinanza>>, accoglieva interinalmente la domanda di sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato, disponendo che la Soprintendenza si rideterminasse.
Successivamente, lo stesso Tribunale, con ordinanza n. 734/2010, <<Atteso che la Soprintendenza non risulta avere ottemperato all’ordinanza sospensiva del presente T.a.r. n. 93/2010, non provvedendo al riesame delle determinazioni assunte; richiamate le considerazioni già effettuate nella richiamata ordinanza e considerate la permanenza dei motivi di urgenza nella stessa evidenziati e la necessità del riesame dell’atto impugnato da parte dell’Amministrazione>>, accoglieva la domanda di esecuzione della precedente ordinanza ed ha reiterato l’ordine di riesame.
La Soprintendenza provvedeva al riesame e, con l’atto prot. n. 10302 del 25 maggio 2010, si esprimeva nuovamente in senso sfavorevole.
D) Gli stessi ricorrenti impugnavano con motivi aggiunti quest’ultimo provvedimento, oltre che la precedente nota prot. n. 2858 del 9 marzo 2010, con cui la stessa Soprintendenza aveva ribadito le ragioni del diniego, chiedendone l’annullamento anche nei motivi aggiunti per violazione del giudicato di cui alla citata sentenza n. 11078 del 5 agosto 2004; dell’art. 4, commi 3, 4 e 5, legge n. 13/1989; dell’art. 23, d.lgs. n. 490/1999, in connessione con l’art. 21, d.lgs. n. 42/2004; degli artt. 1 e ss., legge n. 104/1992, nonché eccesso di potere sotto diversi profili.
Con il primo motivo aggiunto le parti ricorrenti deducevano la violazione o l’elusione del giudicato della sentenza del T.a.r. n. 11078 del 5 agosto 2004, resa inter partes, in quanto il provvedimento gravato avrebbe adottato lo stesso contenuto precettivo e la medesima motivazione contenuta nel provvedimento (prot. n.16170 del 28 luglio 2003) annullato con la medesima.
Con il secondo motivo i ricorrenti lamentavano che la richiesta d’installazione dell’ascensore sarebbe stata motivata in riferimento all’esigenza di tutelare la condizione di portatore di handicap (riconosciuta anche dal Tribunale civile di Napoli con ordinanza resa ex art. 700, c.p.c., datata 11 marzo 2003) della signora L. P., invalida al 100%, madre della signora R. e con essa convivente nell’appartamento sito al terzo piano dello stesso stabile di via Costantinopoli, sicché avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 4, legge n. 13/1989, secondo il quale l’autorizzazione per eseguire interventi su immobili vincolati “può essere negata solo ove non sia possibile realizzare le opere senza grave pregiudizio del bene tutelato” ed il provvedimento di diniego “deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
Secondo i ricorrenti, il suddetto articolo avrebbe dovuto tutelare gli interessi del portatore di handicap, prevalenti rispetto all’interesse pubblico alla tutela dei beni culturali, dettando una disciplina particolarmente stringente, soprattutto quanto all’aspetto motivazionale, per le ipotesi di diniego.
Donde l’illegittimità dell’atto gravato, sotto il profilo motivazionale, non essendo la mera conservazione visiva del prospetto dell’immobile sufficiente a sacrificare l’interesse del portatore di handicap, ritenuto prevalente dalla legge, tanto più che la soluzione tecnica proposta avrebbe comunque permesso la fruizione visiva delle scale dell’immobile, contemplandovisi l’uso di telai in ferro con cristalli trasparenti e collocandosi l’ascensore sul lato destro del prospetto, con la conseguenza di ridurre al minimo l’ostacolo alla visibilità della scala stessa, tanto più in rapporto ad impossibili soluzioni alternative, come pure a già autorizzati interventi identici su quattro edifici vincolati nella stessa zona (v. perizia tecnica in atti).
Con ordinanza n. 4184/2011, il primo giudice: <<1) Considerato che, dopo il passaggio in decisione della causa, il collegio ha rilevato che sussistono seri dubbi in ordine all’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse del ricorso principale in quanto, successivamente alla proposizione del ricorso, la Soprintendenza ha provveduto al riesame della vicenda e, con atto prot. n. 10302 del 25 maggio 2010, si è nuovamente espressa in senso contrario all’installazione dell’ascensore in questione, con un atto (impugnato con il ricorso per motivi aggiunti) che potrebbe essersi posto in termini sostitutivi rispetto al precedente diniego, assumendo un autonomo effetto lesivo tale da rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento. 2) Ricordato che, dopo il passaggio in decisione della causa, il collegio ha rilevato altresì che sussistono seri dubbi in ordine alla parziale inammissibilità del ricorso per motivi aggiunti, per un profilo di carenza di legittimazione a ricorrere dei ricorrenti L. M. e R. R. non eccepito in corso di giudizio (mentre la carenza di legittimazione dell’altro ricorrente, S. B., è stata eccepita dall’interveniente); Ritenuto che il profilo di parziale inammissibilità riguarda il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti ed è relativo alla circostanza che i signori L. M. e R. R. hanno fatto valere in giudizio situazioni giuridiche relative alla tutela della condizione di disabilità della signora L. P..
Atteso che, in particolare, i suddetti motivi di ricorso sono incentrati sulla violazione dei diritti ed interessi del soggetto disabile e, precipuamente, sulla violazione non della generale normativa riguardante gli interventi edilizi su immobili vincolati, bensì della specifica normativa disciplinante tali interventi, ove relativi all’esigenza di tutela della disabilità, con la prospettabile esigenza che titolare della relativa situazione giuridica d’interesse legittimo (o di diritto soggettivo) sia il soggetto disabile e che tale interesse debba esser fatto valere in giudizio da quest’ultimo>>, la sezione assegnava alle parti termine per presentare memorie vertenti unicamente sulle due questioni suindicate.
La parte ricorrente e quella interveniente ad opponendum depositavano rispettive memorie in ordine alle segnalate questioni.
Da quanto sopra esposto emerge che con il ricorso principale si agiva per l’annullamento, della nota della Soprintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Napoli e Provincia, prot. n. 699 del 28 settembre 2009, recante parere negativo circa la realizzazione dell’ascensore de quo e di ogni altro atto connesso, nonché per il risarcimento del danno, mentre, con i motivi aggiunti si agiva per l’annullamento della nota della stessa Soprintendenza prot. n. 10302 del 25 maggio 2010, recante parere negativo quanto all’ascensore di cui sopra, nonché della nota della medesima Soprintendenza prot. n. 2858 del 9 marzo 2010, reiterante i motivi del citato parere negativo.
E) Per i primi giudici il ricorso principale si rivelava improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse, a seguito del nuovo provvedimento (ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c), cod. proc. amm.), privo di caratteri meramente confermativi del precedente parere negativo, essendo intervenuto un riesame della vicenda, con rivalutazione del relativo merito e con un atto finale ad effetto provvedimentale, pienamente sostitutivo del precedente diniego e con un autonomo effetto lesivo, tale da rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento (derivando la lesione alla sfera giuridica dei ricorrenti solo dal nuovo atto).
L’interesse al ricorso, in quanto condizione dell’azione, deve infatti sussistere sia al momento della proposizione del gravame che al momento della decisione, con conseguente attribuzione al giudice amministrativo del potere di verificare la persistenza della predetta condizione in rapporto a ciascuno di tali momenti (cfr. Cons. Stato, sez. V, sent. 14 novembre 2006 n. 6689).
Nella specie, l’interesse fatto valere con l’atto introduttivo del giudizio nei confronti del provvedimento inizialmente gravato non era più attuale e quindi, pur sussistendo al momento della proposizione del ricorso, era poi inesorabilmente mancato, ferma restando l’inattendibilità dell’istanza risarcitoria, rimasta non provata per la riscontrata infondatezza dell’azionata domanda principale.
Il ricorso per motivi aggiunti risultava, invece, in parte inammissibile, per palese difetto di legittimazione a ricorrere del signor S. B., rispetto ad alcuni motivi di ricorso, e per il resto infondato.
F) Seguiva l’appello dei coniugi soccombenti in prima istanza, che deducevano (insieme a domande cautelari – poi rinviate al merito – ed istruttorie) l’errore di giudizio per violazione degli artt. 7, 29, 35, 64, 65 e 112, comma 1, d.lgs. n. 104/2010, in rapporto al divieto di violazione o elusione del giudicato; vizio di motivazione circa l’omesso ritiro esplicito dell’originario diniego da parte della Soprintendenza; tutti i motivi non esaminati dal primo giudice; violazione degli artt. 4, commi 3, 4 e 5, legge n. 13/1989, in comb, disp. art. 21, d.lgs. n. 42/2004; ulteriore vizio di motivazione e/o omessa pronuncia circa la trascurata esigenza della persona disabile di essere trasportata di peso dai familiari per scendere e salire i tre piani di casa (per un dislivello complessivo di ben m. 15), altrimenti dovendosi sostanzialmente considerare come una reclusa, solo per non pregiudicare l’estetica del manufatto, peraltro, solo minimamente intaccata dal progetto presentato; vizio istruttorio circa l’omessa acquisizione d’ufficio delle autorizzazioni concesse dalla Soprintendenza per analoghi interventi (provvedimenti non nella disponibilità degli attuali interessati ed acquisibili in sede istruttoria: cfr. C.S., sezione VI, sent. n. 2090/2011, quanto alla natura dispositiva con metodo acquisitivo del giudizio amministrativo).
Si costituiva in giudizio il Ministero dei beni culturali, che resisteva al gravame, come faceva pure il signor G. C., già intervenuto ad opponendum in primo grado, il quale condivideva gli assunti di cui alla gravata sentenza, alla luce anche dei rinforzi da installare sull’intelaiatura metallica di cui al progetto in esame e dei costi non esorbitanti dei locali da acquisire al primo piano (di proprietà condominiale) ed al secondo piano (di sua proprietà), per una possibile soluzione alternativa (monta-scale).
Con apposita memoria illustrativa i coniugi appellanti ribadivano le loro tesi difensive ed all’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione.
Diritto
I) La vicenda che ha condotto alla proposizione del presente giudizio trae origine dal deposito della sentenza del T.a.r. per la Campania n. 11078 del 5 agosto 2004, che aveva annullato il provvedimento n.16170 del 28 luglio 2003 (emesso dalla Soprintendenza per i beni architettonici di Napoli) per difetto di motivazione.
Tale giudicato di annullamento per difetto di motivazione di un provvedimento di diniego, essendo relativo ad un interesse pretensivo, non ha impedito all’amministrazione di riesercitare il potere sul medesimo oggetto e di giungere ad un esito procedimentale nuovamente negativo, sussistendo solo il divieto, derivante dall’effetto conformativo della sentenza, di riadottare la stessa motivazione ritenuta viziata dalla pronuncia passata in giudicato.
Mentre il provvedimento impugnato con il ricorso principale di primo grado (diniego n. 699 del 28 settembre 2009) sostanzialmente reiterava le ragioni ostative già censurate nella sentenza n. 11078 del 5 agosto 2004, quello gravato con motivi aggiunti (prot. n. 10302 del 25 maggio 2010) conteneva, all’esito di un completo riesame della vicenda, una nuova e, sotto certi versi, più puntuale motivazione, non configurante una mera riproposizione delle argomentazioni ritenute inadeguatamente motivate dalla pronuncia passata in giudicato, non facendovisi più riferimento ad elementi di fatto incongruenti con la proposta progettuale (“taglio del parapetto in piperno ed eventualmente della balconata in piperno al primo piano per l’accesso ai vari pianerottoli”) e recando ragioni più specifiche rispetto alla gravità del pregiudizio dei valori tutelati con l’imposizione del vincolo, oltre a porre in luce, tra l’altro, come la struttura in acciaio e vetro si sovrapporrebbe alla pregevole scala aperta, cancellandone il disegno e contrastandone la complessità architettonica.
II) La sentenza impugnata ha riscontrato la necessità, puntualizzata dall’Adunanza plenaria con sent. n. 4 del 7 aprile 2011, che la parte ricorrente fosse titolare sia dell’interesse a ricorrere (l’utilità ricavabile dall’accoglimento della domanda di annullamento) che della legittimazione al ricorso (postulante l’esistenza di una posizione sostanziale differenziata abilitante un certo soggetto all’esercizio dell’azione.
Nel caso di specie il ricorso era basato sulla deduzione secondo cui l’amministrazione preposta alla tutela dei beni vincolati, nel valutare l’istanza di installazione dell’ascensore, non avrebbe preso in considerazione la circostanza che tale installazione sarebbe stata funzionale a consentire il comodo accesso all’immobile ad un disabile residente nello stabile e, conseguentemente, avrebbe violato la specifica normativa dettata dalla legge n. 13/1989, art. 4, per contemperare le esigenze relative ai soggetti disabili in caso d’interventi edilizi da realizzare su immobili vincolati, limitando la discrezionalità della p.a. nell’esprimere un diniego ai soli casi in cui “non sia possibile realizzare le opere senza grave pregiudizio del bene tutelato” (comma 4) ed imponendo, per tali ipotesi, in capo a quest’ultima un particolare obbligo motivazionale, indicando che il provvedimento di diniego avrebbe dovuto “essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato” (comma 5).
Il T.a.r. ha, dunque, rilevato la differenziata posizione del signor S. B. da quelle dei coniugi L. M. e R. R., che avevano inoltrato l’istanza alla Soprintendenza per il rilascio del parere sull’installazione dell’ascensore, ricevendone il diniego (indirizzato a loro come parti richiedenti), ma risiedevano nello stesso appartamento, sito al terzo piano, con la signora L. P., invalida al 100% e madre di R. R..
III) Il signor S. B., al contrario, non risultava essere stato parte dell’istanza indirizzata alla Soprintendenza e, conseguentemente, destinatario del diniego, né risiedeva nello stesso appartamento, né aveva alcun rapporto di parentela con la disabile i cui interessi sarebbero stati lesi dal parere negativo, per cui risultava unicamente proprietario di un appartamento sito nello stesso piano (il terzo) del soggetto disabile, con una carenza di legittimazione a ricorrere, non essendo destinatario del provvedimento di diniego, non risultando tra i soggetti formulanti la richiesta e non essendo titolare né avendo alcun rapporto di collegamento con la posizione di disabilità posta a base della motivazione del ricorso e, quindi, dell’interesse pretensivo fatto valere, ma prospettandosi soltanto come un soggetto che, seppure titolare di un interesse di mero fatto alla realizzazione dell’impianto, non era titolare di una posizione giuridica soggettiva, qualificata e differenziata che lo legittimasse al ricorso, neppure in rapporto al giudicato interno di cui alla precedente sentenza del T.a.r. di Napoli n. 11078/2004, inerente all’impugnativa di un diverso, seppur similare, atto amministrativo e nemmeno in relazione alla sentenza del giudice ordinario (Tribunale civile di Napoli, sez. XII, sent. n. 11216/2008, avente diverso oggetto).
In sostanza, il signor B. era legittimato a presentare il primo dei motivi aggiunti in cui la censura fatta valere (e rigettata) riguardava la violazione del giudicato (perché a suo tempo era stato parte ricorrente), in rapporto al quale la posizione fatta valere non era quella dell’interesse legittimo sottostante alla vicenda sostanziale relativa alla tutela del disabile ma quella distinta nascente dal vincolo di giudicato, ravvisandosi invece un palese difetto di legittimazione per il secondo, il terzo ed il quarto motivo aggiunto incentrati, in modo espresso o implicito, sul mancato rispetto della normativa di tutela dei disabili, configurandosi autonomamente solo il quinto motivo di ricorso incentrato sulla disparità di trattamento, senza fare alcun riferimento alla suddetta disciplina speciale ed ai profili inerenti a situazioni di disabilità; donde la sua carenza di legittimazione in ordine al secondo, terzo e quarto motivo di ricorso.
Differente è la posizione dei due coniugi di cui sopra, richiedenti l’autorizzazione e destinatari del provvedimento di diniego, nonché conviventi con il soggetto disabile loro collegato da rapporti di parentela ed affinità, con correlativa titolarità di un interesse legittimo, abilitante gli stessi ad agire in sede giurisdizionale, per una tutela rafforzata in favore dei soggetti portatori di handicap, non unici titolari delle correlative situazioni tutelabili.
Al riguardo, l’art. 2, legge n. 13/1989, nel prendere in esame la necessità di apportare modificazioni ad edifici già esistenti, prevede la necessità delle sole maggioranze assembleari previste dall’articolo 1136, commi secondo e terzo, c.c., per l’approvazione dei lavori, aggiungendo che, nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni necessarie a tali modificazioni, “i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe dei garage”.
Tale norma, apparentemente legittimante all’effettuazione degli interventi di rimozione di barriere architettoniche solo il disabile o i suoi rappresentanti, dev’essere interpretata in modo estensivo ed, in ogni caso, riguarda il limitato ambito civilistico dei rapporti tra condomini e non detta un principio generale valido per la posizione relativa ai titoli amministrativi legittimanti l’intervento.
Nella specie, l’autorizzazione da parte della Soprintendenza rilevava come prevalente l’esigenza oggettiva di rendere gli edifici fruibili dal portatore di handicap, posta a base della legge n. 13/1989 (art. 4), da tener presente in sede interpretativa.
Ad avviso del T.a.r., la legittimazione a ricorrere non può intendersi in ogni caso come strettamente limitata o riservata al solo disabile o, in sua vece, soltanto a chi ne eserciti la necessaria tutela o rappresentanza, senza peraltro stravolgere il carattere personalistico dell’interesse legittimo e, di conseguenza, del processo amministrativo, giurisdizione di carattere soggettivo, a difesa di posizioni d’interesse legittimo non di stretta ed esclusiva pertinenza di soggetti disabili (con l’effetto di limitare la legittimazione processuale per la loro tutela), ma radicabili anche in capo ad altri soggetti, in presenza di un rapporto differenziato con l’immobile e la situazione di disabilità, per cui, nel caso di approvazione dei lavori per la rimozione delle barriere architettoniche da parte dell’assemblea condominiale, ai sensi del citato art. 2, legge n. 13/1989, non potrebbe negarsi al condominio, in persona del suo amministratore, la legittimazione a richiedere la prevista autorizzazione alla Soprintendenza per i lavori sulle parti comuni dell’edificio e, conseguentemente, ad impugnare il relativo eventuale diniego.
La possibilità di consentire ad un soggetto diverso dal disabile, come il proprietario dell’immobile, l’azionabilità dell’interesse in questione risulta ancora evidenziata ove il disabile non sia proprietario dell’unità immobiliare, sita nello stabile interessato dall’intervento, né detenga alcun altro specifico titolo rispetto all’uso dell’unità abitativa, ma semplicemente vi risieda per ragioni familiari, mancando in capo al disabile un preciso titolo ai fini della richiesta di effettuazione dei lavori in questione.
IV) Appare dunque preferibile un’interpretazione estensiva in ordine alla legittimazione a ricorrere contro il diniego della Soprintendenza, peraltro, senza stravolgere il carattere personale dell’interesse legittimo e la natura soggettiva della giurisdizione amministrativa, onde l’interesse in questione assurga a dignità di posizione qualificata e differenziata, mediante uno stabile collegamento con una situazione concreta di disabilità, nel senso che, salvo che non sia disabile lui stesso, l’interessato deve provare che l’unità immobiliare di cui è proprietario deve ospitare un portatore di handicap, nonché di avere un concreto interesse alla rimozione delle barriere architettoniche, interesse anche di natura meramente familiare e comprovabile pure in base a criteri presuntivi: circostanza che ricorreva nel caso di specie, il disabile risiedendo nella stessa unità abitativa per ragioni familiari.
I coniugi signor L. M. e signora R. R. risultavano quindi legittimati ad agire in giudizio, avendo sia un concreto interesse ad agire sia una posizione legittimante derivante dalla titolarità di un concreto interesse legittimo.
V. Così richiamate le vicende che hanno condotto al secondo grado del giudizio, ritiene la Sezione che l’appello sia infondato.
Il quadro normativo di riferimento, in materia di soggetti portatori di minorazioni fisiche – in particolare, costituito dalle leggi 9 gennaio 1989 n. 13 e 5 febbraio 1992 n. 104 – ha sicuramente elevato il livello di tutela di tali soggetti, non più relegato ad un ristretto ambito soggettivo ed individuale, ma ormai considerato come interesse primario dell’intera collettività, da soddisfare con interventi mirati a rimuovere situazioni preclusive dello sviluppo della persona e dello svolgimento di una normale vita di relazione: donde le previsioni per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati – dettate in via generale dalla legge n. 13 del 1989 e nelle relative n.t.a. di cui al d.m. 14 giugno 1989 n. 236 – fissanti criteri da osservarsi sia in sede di progettazione e costruzione di nuovi edifici sia di ristrutturazione generale di quelli esistenti, onde garantire idonee condizioni di accesso e di fruizione da parte dei soggetti handicappati, anche nei casi d’immobile dichiarato di particolare interesse ex legge n. 1089/1939.
In tali ipotesi, tuttavia, l’art. 4, commi 4 e 5, legge n. 13/89, fa salvi i casi di serio pregiudizio del bene tutelato”, fermo restando che “il diniego deve essere motivato con la specificazione della natura e della serietà del pregiudizio, della sua rilevanza in rapporto al complesso in cui l’opera si colloca e con riferimento a tutte le alternative eventualmente prospettate dall’interessato”.
VI) Peraltro, il citato onere è stato correttamente assolto dall’amministrazione, che ha evidenziato l’esistenza del grave pregiudizio al bene tutelato, non inteso come danneggiamento fisico dell’immobile, bensì come rischio per il valore tutelato dall’apposizione del vincolo e, nella specie, i valori storici, artistici o estetici espressi dall’edificio.
La motivazione del provvedimento, inoltre, si è riferita pure all’elemento dei materiali usati, acciaio e vetro (di per sé tali da comportare il pregiudizio ai valori estetici tutelati), con valutazioni effettuate dalla Soprintendenza e caratterizzate da un’ampia sfera di discrezionalità amministrativa, vertendo su criteri che, per quanto ancorati a parametri tecnici, si estrinsecano in giudizi connotati da un inevitabile margine di opinabilità, ma nella specie basati su considerazioni del tutto ragionevoli e condivisibili.
Nella specie, infatti, il giudizio della Soprintendenza sul valore dell’immobile e sulla gravità del danno arrecato ai valori estetici dell’edificio, con la realizzazione dell’ascensore, non si presta alle censure sollevate di eccesso di potere e di violazione di legge, non apparendo ulteriormente sindacabile la sfera d’inevitabile opinabilità pertinente alle valutazioni in ordine ai valori storici ed artistici, la compatibilità con tali valori degli interventi sul bene e l’eventuale gravità della menomazione arrecata ai valori tutelati.
La Soprintendenza ha preso specificamente in esame, in sede di motivazione, l’elemento dei materiali previsti in sede progettuale e l’ubicazione dell’impianto, concludendo che tali elementi non erano idonei ad evitare la temuta compromissione del bene in questione.
Né tale valutazione appare affetta da manifesta illogicità o travisamento dei fatti.
VI) D’altra parte, la circostanza dell’eventuale esistenza di una praticabile alternativa appare, difatti, irrilevante in ordine all’esito finale del provvedimento di diniego.
La norma legislativa, difatti, non fa assurgere la circostanza dell’impossibilità di possibili soluzioni alternative a criterio determinante rispetto al rilascio dell’autorizzazione.
Al contrario, la normativa prevede il diniego dell’autorizzazione ove si ravvisi un grave pericolo (espresso mediante un’esaustiva motivazione), senza che l’inesistenza di soluzioni alternative possa in tal caso indirizzare in modo differente la scelta negativa.
L’amministrazione ben poteva rilevare come la prospettata soluzione progettuale avrebbe comportato il concreto pregiudizio dei tutelati valori architettonici e non era tenuta ad evidenziare quali specifiche soluzioni alternative avrebbero potuto rendere possibile una valutazione favorevole.
Nel caso di specie, poi, il richiamo effettuato nel provvedimento gravato all’esistenza di soluzioni progettuali alternative (emerse anche nel corso delle sedute dell’assemblea del condominio) evidenzia ulteriormente la ragionevolezza del contestato diniego, perché in sede amministrativa i privati interessati, pur consapevoli della fattibilità sotto il profilo materiale di soluzioni meno invasive (ma comunque di per sé valutabili dalla Soprintendenza anche in senso negativo), hanno ritenuto di presentare una soluzione incidente direttamente sulla visibilità e fruizione della scala retrostante.
VII) Va poi disattesa pure la doglianza basata sulla disparità di trattamento, in assenza d’identici presupposti (cfr. Cons. Stato, sezione V, sent. n. 5665/2003), in quanto la Soprintendenza avrebbe autorizzato interventi praticamente eguali su edifici vincolati nella medesima zona (nella stessa via Costantinopoli, ai nn. 84 e 104; via Nilo n. 17 e Palazzo Davalos: tutti con vincolo totale e non parziale, come quello de quo).
La doglianza richiama situazioni di mero fatto e tra di loro non comparabili, limitandosi ad indicare la realizzazione (documentata anche da fotografie) d’interventi d’installazione di ascensori di tipologia simile a quella oggetto del giudizio in cortili d’immobili insistenti sulla stessa zona.
Nulla di specifico prospetta, però, in ordine alla loro situazione giuridica, ovverosia se gli stessi siano stati effettivamente autorizzati e per quali ragioni né sulla effettiva identità dei presupposti delle situazioni giuridiche indicate con quella qui in esame: gli interessati si sono limitati a dedurre (senza neanche comprovarlo in base a specifica documentazione) il mero carattere vincolato degli immobili e la somiglianza degli interventi edilizi effettuati.
Peraltro, al riguardo ritiene anche la sezione che:
– in sede di esame delle istanze di autorizzazione, vòlte a modificare la struttura o il prospetto di un bene sottoposto a vincolo architettonico, sia del tutto irrilevante quanto abbia fatto l’amministrazione in precedenza, in relazione ad altri beni, ad esempio, consentendo modificazioni dello stato dei luoghi;
– in ogni caso, quand’anche in precedenza la Soprintendenza abbia autorizzato opere comportanti la diminuizione della visibilità di elementi costruttivi di alcuni edifici (quali, ad esempio, la tromba delle scale), l’amministrazione ben possa in altri casi ravvisare esigenze di tutela dei medesimi elementi costruttivi che si trovino in altri edifici, anche al peculiare scopo di perpetuarne l’immagine e la memoria.
Conclusivamente, l’appello va dunque respinto, con conferma dell’impugnata sentenza e spese del secondo grado di giudizio interamente compensate tra le parti costituitevi.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione VI, respinge l’appello (r.g.n. 2970/2012) e compensa tutti gli oneri processuali tra le parti costituite nel giudizio di secondo grado.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.