L’obbligo di riconsegnare la cosa locata al locatore (art. 1570 c.c.) non si esaurisce in una semplice messa a disposizione delle chiavi ma richiede, per il suo esatto adempimento, una attività consistente in una incondizionata restituzione del bene e, dunque, in una effettiva immissione dell’immobile nella sfera di concreta disponibilità del locatore.

 

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 5 dicembre 2012 – 28 gennaio 2013, n. 1887

Svolgimento del processo
Il 19 maggio 2006 il Tribunale di Salerno rigettava l’opposizione a decreto ingiuntivo dell’importo di lire 5.830.640, oltre interessi e spese, emesso a favore di M..P. proposta da L.G. a titolo di somme dovute per differenza canoni e spese di registrazione, e per mancato pagamento di canoni dall’agosto del 2000, data di convalida dello sfratto per morosità al febbraio 2001, data di rilascio dell’immobile.
Su gravame del L. la Corte di appello di Salerno il 4 febbraio 2008 ha confermato la sentenza di prime cure.
Avverso siffatta decisione propone ricorso per cassazione il L. , affidandosi a quattro motivi, corredati dei prescritti quesiti.
Resiste con controricorso il P. .
All’udienza del 18 ottobre 2011 il Collegio rilevato il difetto di notifica dell’udienza al ricorrente rinviava la causa a nuovo ruolo.
Motivi della decisione
1.-Con il primo motivo (omessa motivazione circa il fatto decisivo e controversi per il giudizio in relazione all’art.360 n.5 c.p.c.) il ricorrente lamenta che punto decisivo e controverso, su cui il giudice dell’appello non si sarebbe pronunciato, non sarebbe, come si legge in sentenza, la mancata effettuazione da parte sua dell’offerta per intimazione ex art. 1216 c.c. né l’astratta illegittimazione della moglie del locatore a ricevere in sua vece le chiavi, ma la verifica dell’effetto liberatorio di quella consegna alla luce delle circostanze di fatto e di diritto dedotte da esso attuale ricorrente (p.8 ricorso).
Di vero, il giudice dell’appello, condividendo l’orientamento di questa Corte, che è il caso di ribadire, in linea di puro diritto ha osservato che “l’obbligo di riconsegnare la cosa locata al locatore (art. 1570 c.c.) non si esaurisce in una semplice messa a disposizione delle chiavi ma richiede, per il suo esatto adempimento, una attività consistente in una incondizionata restituzione del bene e, dunque, in una effettiva immissione dell’immobile nella sfera di concreta disponibilità del locatore.
Qualora non possa attuarsi la concreta (e comprovata) cooperazione di quest’ultimo si rende necessaria, ai fini della liberazione dagli obblighi connessi alla mancata restituzione, un’offerta fatta a norma dell’art. 1216 c.c., con onere della prova circa lo svolgimento di detta legale attività, a carico del conduttore (Cass. n. 8616/06).
Del resto, questa Corte ha in modo costante affermato che la liberazione del conduttore dall’obbligo di riconsegnare la cosa locata si attua, essendo il rapporto di locazione un rapporto obbligatorio intuitu personae, solo con la consegna del bene, anche se nella modalità della consegna delle chiavi, al locatore in persona o ad altri soggetti che lo rappresentino in virtù di espressa sua volontà (v. Cass. n. 550/12; Cass. n. 5841/04).
Ciò posto in rilievo il giudice dell’appello ha potuto accertare che non si era svolta “certamente” la attività di cui all’art. 1216 e, quindi, non si era verificata la effettiva immissione del bene locato nella sfera di disponibilità. Peraltro, ma sembra ad abundantiam, il giudice a quo ha precisato che “la consegna delle chiavi, pur se avvenuta, non è stata effettuata nelle mani dell’unico legittimato a riceverla (il locatore)” (p.5-6 sentenza impugnata).
La decisione sul punto è, quindi, corretta sotto ogni profilo. Del resto, a corredo della censura il quesito di diritto, così come formulato (p. 8 ricorso), appare inconferente in quanto, come anche rileva il resistente, il denunciato vizio non concerne l’inquadramento di una fattispecie nell’una piuttosto che nell’altra fattispecie di diritto, bensì il percorso logico-giuridico seguito dal giudice.
Infatti, l’errore denunciato attiene ad un errore in procedendo (Cass. n. 29779/08), mentre il ricorrente con il quesito in effetti denuncia un errore in judicando, soffermandosi, peraltro, sulla prova orale espletata, che già il giudice di prime cure aveva ritenuto inadeguata a dimostrare il suo assunto.
Ne consegue che gli altri due motivi (il secondo, sulla violazione dell’art.1590 c.c. e falsa applicazione dell’art.121 6 c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c. e il terzo, sulla falsa applicazione dell’art. 1590 c.c. in relazione all’art. 360 n.3 c.p.c.), restano assorbiti, in quanto con essi si riproduce la doglianza, in estrema sintesi, sempre sotto il profilo della valutazione delle circostanze e delle prove acquisite al processo, in specie lì dove i relativi quesiti sembrano tautologici e la redazione degli stessi non sembra rispettosa del precipitato normativo di cui all’art.366 c.p.c., in quanto il ricorrente si limita solo a dedurre che la fattispecie esaminata dal giudice dell’appello non era quella inquadrabile nell’art. 1216 c.c..
2. – In merito al quarto motivo (violazione dell’art. 1 comma IV della legge n.431/98; falsa applicazione dell’art.1230 c.c. in relazione il tutto all’art.360 co. 1 n. 3 c.p.c.), peraltro, corredato da corretto quesito, il ricorrente, in estrema sintesi, lamenta che il giudice dell’appello abbia fatta una “interpretazione capovolta” della normativa di cui alla legge n.431/98 con evidente violazione anche dell’art. 1230 c.c.. Al riguardo, si evince dalla sentenza impugnata che il giudice dell’appello ha individuato la esistenza di due contratti di cui il secondo, scritto e registrato, avrebbe annullato il precedente, confermando quanto già il Tribunale ebbe ad affermare, ossia che l’art. 13 della legge n.431/98 non si attaglia al caso di specie, in cui il contratto col canone inferiore (lire 300 mila mensili) riporta la data del 30 aprile 1999 ed è quindi di epoca antecedente a quello, oggetto di causa, avente il canone maggiore (lire; 500 mila al mese), che risulta registrato il 21 aprile 2000.
In merito a questa statuizione, condivisa, come detto, dal giudice dell’appello, il ricorrente assume che in difetto di prova contraria della sua natura simulata – prova che, certamente, non potrebbe farsi consistere nelle ricevute dei pagamenti per canoni di lire 500.000- la nuova pattuizione intercorsa con riferimento al medesimo immobile, in quanto tale sarebbe idonea ad annullare la precedente (p. 11 ricorso).
La censura va respinta perché, contrariamente all’assunto da cui parte il ricorrente, il giudice dell’appello ha ritenuto, alla luce della documentazione prodotta e del suo contenuto ivi espressi, sussistenti due diversi contratti, per cui non ricorre la ipotesi legale di cui all’art.13 della citata legge, che, invece, come è noto, riguarda la sola ipotesi tassativa di pattuizione tesa a disporre un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato.
Conclusivamente, il ricorso va respinto e le spese del presente giudizio di cassazione vanno liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 2.100/00, di cui Euro 200 per spese, oltre accessori come per legge.

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