Cass. civ. Sez. II, 09/06/2009, n. 13313

La disposizione dell’art. 889 c.c. relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi è applicabile anche con riguardo agli edifici in condominio, salvo che si tratti di impianti da considerarsi necessari ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene.

(Nella fattispecie, la Cassazione ha ritenuto che il rifacimento di un locale adibito a servizi igienici dia luogo a lavori essenziali ad un’adeguata vivibilità dell’appartamento secondo moderni criteri di civiltà. Altrettanto può dirsi in relazione alla creazione o alla modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, trattandosi di un’esigenza ormai talmente diffusa da rivestire quel carattere di essenzialità che giustifica la non applicazione – negli edifici in condominio – delle distanze di cui all’art. 889 c.c.).

Testo integrale della sentenza:

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La Corte d’appello di Salerno con sentenza del 15 giugno 2007 accoglieva il gravame proposto da B.A. avverso T. A. e rigettava la domanda con cui quest’ultima aveva chiesto la eliminazione di tubazioni installate dal sig. B., a confine con le pareti dell’appartamento T., per realizzare un secondo bagno nella propria unità abitativa.

T.A. ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 12 ottobre 2007, affidandosi a due motivi, illustrati con memoria.

B. ha resistito con controricorso.

Il giudice relatore ha avviato la causa a decisione con il rito previsto per il procedimento in camera di consiglio.

Il primo motivo, che lamenta violazione dell’art 889 c.c. comma 2 in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 pone il seguente quesito di diritto, a norma dell’art. 366 bis c.p.c.: “Nei condomini, le condutture di un secondo bagno realizzato ex novo in un appartamento, già provvisto di bagno padronale, non possono ritenersi indispensabili e necessarie, per cui sono soggette alle distanze di cui all’art. 889 c.c., comma 2, soprattutto in presenza di provati danni nel limitrofo appartamento”.

Il quesito risulta inconferente rispetto alla sentenza impugnata, poichè il punto di fatto decisivo che lo ancora al caso di specie, costituito dalla presenza di “provati danni”, non risulta dalla sentenza della Corte di Lecce. Il secondo motivo del gravame di merito si riferiva invero a danni arrecati dal B. al muro divisorio e la Corte ha confermato la sentenza che condannava l’appellante al pagamento di circa mille Euro alla M., ma tali danni erano quelli arrecati al muro divisorio per effetto dell’esecuzione dei lavori e non quelli cui si riferisce il motivo di ricorso per cassazione. Quest’ultimo assume infatti che la realizzazione del secondo bagno di casa B. sarebbe gravemente dannosa a cagione: a) delle vibrazioni arrecate dall’apparecchio di espulsione elettrica dei liquami triturati; b) del rumore “continuo e assordante” dello scarico del vaso, della doccia, e della lavatrice;

c) degli odori sgradevoli convogliati con una tubazione aerea fino alla parete esterna, che non consentirebbero più l’apertura di una finestra.

Di questi danni nulla reca la sentenza impugnata e parte ricorrente si limita a riferire che sono stati descritti dalla consulenza tecnica, senza però riportare, come avrebbe dovuto in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (Cass. 11886/06; 8960/06; 7610/06), i passi testuali della relazione tecnica da cui desumere l’esistenza dei disagi lamentati. Viene infatti citato (pag. 7 ricorso) solo un breve passaggio della consulenza, in cui si darebbe conto di una tubazione aerea che porta gli odori all’esterno dell’edificio mediante ventola elettrica, frase che nulla dice circa i danni lamentati. Ma su parte ricorrente, poichè la questione non risultava trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, gravava ancor prima l’onere di allegare l’avvenuta deduzione di essa innanzi al giudice di merito, nonchè di indicare in quale atto del giudizio precedente lo avesse fatto (Cass. 9765/05; 22540/06). In relazione alla omessa considerazione dei danni lamentati, la ricorrente avrebbe quindi dovuto censurare la sentenza di merito per vizio di motivazione, una volta emerso il quale sarebbe divenuto attuale il quesito posto con il primo motivo.

La doglianza esposta, privata della qualificazione che le è stata data con il diffuso riferimento all’esistenza di danni e quindi con l’ultimo inciso del quesito, risulta infondata. La Corte d’appello ha applicato fedelmente un principio giuridico ormai consolidato, in forza del quale “La disposizione dell’art. 889 cod. civ. relativa alle distanze da rispettare per pozzi, cisterne, fossi e tubi è applicabile anche con riguardo agli edifici in condominio, salvo che si tratti di impianti da considerarsi necessari ai fini di una completa e reale utilizzazione dell’immobile, tale da essere adeguata all’evoluzione delle esigenze generali dei cittadini nel campo abitativo e alle moderne concezioni in tema di igiene” (Cass n. 8801/99; 16958/06). In particolare, con riferimento a fattispecie molto simile a quella odierna, Cass. 13285/01 ha ritenuto che il rifacimento di un locale adibito a servizi igienici dia luogo a lavori essenziali ad un’adeguata vivibilità dell’appartamento secondo moderni criteri di civiltà. Altrettanto può dirsi in relazione alla creazione o alla modifica di un secondo bagno nelle moderne abitazioni di taglio medio, trattandosi di un’esigenza ormai talmente diffusa da rivestire quel carattere di essenzialità che giustifica la non applicazione – negli edifici in condominio – delle distanze di cui all’art. 889 c.c. soprattutto nei casi come quello in esame in cui, come ritenuto incensurabilmente dalla Corte d’appello, la scelta della collocazione dei tubi era pressochè obbligata e comunque accortamente posta quasi completamente a confine con un corridoio dell’abitazione vicina. Inammissibile è il secondo motivo di ricorso, che lamenta vizio di motivazione anche con riferimento a quest’ultimo profilo, affermando anche che nell’abitazione B. non era mai esistito in precedenza un secondo bagno. Il primo giudice relatore ha già evidenziato l’assenza di specifica indicazione del fatto controverso, necessaria ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c. per l’ammissibilità del motivo. In memoria parte ricorrente deduce che questa indicazione si potrebbe rinvenire nell’ultimo inciso della penultima pagina del ricorso, ove si legge che “In mancanza di prove in ordine ad una presunta necessità o indispensabilità o impossibilità di diversa collocazione, la Corte non poteva, con erronea motivazione, concludere che, nel caso di specie, è inapplicabile l’art. 889 c.c., comma 2, dimenticando gli illeciti e i danni evidenziarti dalla difesa ed accertati dalla ctu.” Orbene, allorchè nel ricorso per cassazione si lamenti un vizio di motivazione della sentenza impugnata in merito ad un fatto controverso, l’onere di indicare chiaramente tale fatto ovvero le ragioni per le quali la motivazione è insufficiente, imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., deve essere adempiuto non già e non solo illustrando il relativo motivo di ricorso, ma anche formulando, al termine di esso, una indicazione riassuntiva e sintetica, che costituisca un “quid pluris” rispetto all’illustrazione del motivo, e che consenta al giudice di valutare immediatamente l’ammissibilità del ricorso (Cass. 8897/98; 16002/07), specificando le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione. Tale formulazione non si rinviene nella frase valorizzata da parte ricorrente, nella quale si lamenta genericamente la mancanza di prove e si tornano a lamentare quei danni di cui la sentenza, come si è prima detto, nulla riferiva. Mette conto poi aggiungere che anche in questo caso il motivo si presenta deficitario quanto al requisito dell’autosufficienza, atteso che le risultanze processuali da opporre alle argomentate tesi del giudice di merito non sono state neppure sommariamente riportate.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite, liquidate in Euro 2.000 per onorari, Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge rimborso delle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della seconda sezione civile, il 19 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2009

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