Qualora sia aperta una luce irregolare, il vicino non ha per ciò solo diritto alla chiusura, quando sia possibile renderla conforme alle prescrizioni vigenti, demandando al prosieguo del giudizio la verifica circa la possibilità e le modalità della eventuale regolarizzazione.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 24 giugno – 16 settembre, n. 19480
Presidente Bursese – Relatore Migliucci
Svolgimento del processo
1. – B.S. conveniva in giudizio dinanzi al Giudice di pace di Portogruaro Bo.Lu. per sentirlo condannare all’estirpazione di piante ed alberi esistenti sul fondo di quest’ultimo, attiguo a quello di PROPRIETÀ dell’attore, e situati a distanza inferiore a quella legale.
Costituitosi in giudizio, Bo.Lu. contestava le deduzioni attoree, asserendo che la situazione denunciata dal B. risaliva ad oltre vent’anni addietro e lamentava a sua volta l’apertura in epoca recente sulla parete dell’edificio di proprietà dell’attore di fori non rispondenti alle prescrizioni di cui all’art. 901 cod. civ., chiedendone l’eliminazione o la loro riconduzione alle prescrizioni di cui all’art. 901 cod. civ.; instava, comunque, per la rimessione dell’intero procedimento al tribunale, appartenendo la DOMANDA riconvenzionale alla competenza di quest’ultimo.
Il Giudice di pace, con sentenza non definitiva n. 134 del 3.12.1999, respingeva la domanda avanzata dal convenuto.
Avverso la predetta sentenza proponeva appello il Bo. , eccependo che il giudice di primo grado, anziché escludere la natura riconvenzionale della domanda attorea e respingerla in quanto proponibile autonomamente in altro giudizio, avrebbe dovuto rimettere l’intera causa al Tribunale, in quanto incompetente a pronunciare sulla domanda riconvenzionale. Instava, quindi, per l’accoglimento delle domande proposte dinanzi al giudice di prime cure.
Costituitosi in giudizio, il B. instava per il rigetto dell’appello, escludendo che la domanda di chiusura dei fori avesse natura riconvenzionale, e chiedendo in via subordinata la rimessione della causa al giudice di primo grado e, comunque, il rigetto della domanda stessa, in quanto infondata nel merito.
Con sentenza non definitiva del 2 dicembre 2005 il tribunale di Venezia respingeva la domanda di chiusura delle luci esistenti, accogliendo la richiesta di regolarizzazione delle stesse per renderle conformi alle previsioni di cui all’art. 901 cod. civ.; disponeva la rimessione della causa in istruttoria onde determinare le opere all’uopo necessarie.
All’esito della disposta consulenza tecnica di UFFICIO, con sentenza definitiva n. 84/07 il tribunale condannava l’attore a regolarizzare le luci secondo quanto previsto dall’art. 901 n. 2 cod. civ..
Il Giudice affermava quanto segue:
secondo quanto ritenuto dalla sentenza non definitiva, la consulenza tecnica d’ufficio aveva accertato che i sei fori di cui si controverte, ubicati al piano terreno del fabbricato del B. e che si affacciano sul fondo del Bo. , presentavano le seguenti CARATTERISTICHE: a) cinque di essi erano muniti di un’inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino, ma non di una grata fissa in metallo le cui maglie non siano maggiori di tre centimetri quadrati, mentre il sesto era privo sia di inferriata che di grata; b) il lato inferiore era posto ad una altezza minore di due metri e mezzo dal pavimento del luogo a cui si vuole dare aria e luce, trattandosi di locali a piano terreno; c) il lato inferiore era posto ad una altezza minore di due metri e mezzo dal suolo del fondo vicino, pur trattandosi di locali situati a livello inferiore al terreno del Bo. , ad esclusione di quello munito dell’apertura identificata dal c.t.u. con il n. 5.
– i fori in esame costituivano luci irregolari, essendo prive dei requisiti prescritti dall’art. 901 cod. civ. per cui era necessario per regolarizzarle EX art. 902 cod. civ.;
– la regolarizzazione era possibile nel misura in cui l’altezza dei locali muniti delle aperture sia maggiore dell’altezza minima stabilita dall’art. 901 cod. civ.;
in ogni caso, quand’anche la pratica impossibilità di far acquistare alle medesime i requisiti stabiliti dalla legge comporti, di fatto, la conseguenza della loro chiusura, ciò non consentiva di ravvisare alcuna contraddittorietà tra l’accoglimento della domanda di regolarizzazione delle luci che determina questa conseguenza pratica e la pronuncia non definitiva che, nel rigettare la domanda di chiusura delle luci, aveva escluso il relativo diritto quando sussiste la possibilità di renderle conformi alle prescrizioni vigenti.
2. – Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il B. sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso l’intimato.
Motivi della decisione
1.1. – Il primo motivo, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 339 cod. proc. civ., deduce l’inammissibilità dell’appello proposto avverso sentenza del giudice di pace pronunciata secondo equità tenuto conto del valore della domanda di chiusura e/o riduzione delle luci quantificato dal consulente in Euro 880,00: secondo la disciplina all’epoca vigente, la decisione n. 134/1999 sarebbe stata ricorribile in cassazione.
1.2. – Il motivo va disatteso.
Occorre ricordare che, con la sentenza non definitiva emessa in grado di appello, il tribunale ha esaminato la domanda nel merito e, rigettata la richiesta di chiusura, ha qualificato come luci irregolari le aperture, disponendo la prosecuzione del giudizio per la loro eventuale regolarizzazione: tale decisione, non essendo stata impugnata, è passata in cosa giudicata ed è divenuta intangibile cosi precludendo ormai ogni discussione evidentemente anche in relazione a quelli che erano i presupposti per la sua emissione (ammissibilità dell’appello) implicitamente e necessariamente risolti con la pronuncia di merito.
2.- Il secondo motivo, lamentando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo, censura la sentenza impugnata, deducendo il contrasto fra le argomentazioni e le statuizioni che erano a loro volta in contrasto fra di loro, non essendo possibile ricostruire l’iter logico della sentenza. In particolare evidenzia che:
– in considerazione delle misure riportate dal consulente di ufficio il Giudice, dopo avere fatto pensare che fosse sia possibile quanto meno il rispetto della prescrizione di cui al n. 2 dell’art. 901 cod. civ., non poteva non riconoscere la pratica impossibilità di osservare la altezza di metri due e mezzo dal pavimento del locale al quale danno luce se non chiudendo le luci;
– ulteriore confusione nasceva a proposito del riferimento compiuto alla sentenza n.192/04 che aveva rigettato la domanda di chiusura delle luci, pur avendo la sentenza definitiva dato atto della materiale impossibilità della loro regolarizzazione;
– la motivazione si era rivelata contraddittoria, generica e inidonea in merito all’oggetto della controversia ovvero se si dovesse procedere alla regolarizzazione o alla chiusura delle luci.
3. – Il terzo motivo denuncia la nullità della sentenza laddove, essendo impossibile elevare l’apertura all’altezza non inferire a metri due e mezzo dal pavimento, si era rivelato inconciliabile disporne la elevazione e al tempo stesso di apporre una grata fissa in metallo.
4.- Il quarto motivo denuncia il contrasto della decisione impugnata con la sentenza non definitiva, passata in cosa giudicata, che aveva rigettato la domanda di chiusura delle luci.
5.- Il secondo, il terzo e il quarto motivo – che, per la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente – sono infondati.
a) La sentenza, nel condannare l’attore a rendere le aperture delle luci conformi alle prescrizioni dettata dall’art. 901 cod. civ., ha con riferimento in particolare a quanto previsto dal n. 2), precisato che “la attuazione è possibile nella misura in cui l’altezza dei locali che sono muniti delle sei aperture sia maggiore dell’altezza minima imposta da questa disposizione”.
In tal modo, con accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha verificato e statuito che la regolarizzazione delle aperture è possibile e va attuata nei limiti e nella misura in cui le dimensioni dell’apertura siano (necessariamente) ridotte in modo tale da consentire il rispetto dell’altezza di metri 2,50 dal pavimento del locale al quale danno luce; pertanto, correttamente è stata ordinata sia l’adozione delle previsioni di cui al n.1) sia di quelle di cui al n. 2) dell’art. 901 cod. civ. (e per una delle aperture anche a quelle di cui al n. 3 della norma citata).
b) Con argomentazione ulteriore, resa ad abundantiam “in ogni caso” i Giudici hanno anche esaminato – per l’astratta ipotesi di impossibilità della regolarizzazione – ed escluso la denunciata contraddittorietà con quanto statuito con la sentenza n. 192/2004, la quale si era limitata ad affermare il principio di diritto secondo cui, qualora sia aperta una luce irregolare, il vicino non ha per ciò solo diritto alla chiusura, quando sia possibile renderla conforme alle prescrizioni vigenti, demandando al prosieguo del giudizio la verifica circa la possibilità e le modalità della eventuale regolarizzazione.
E in proposito, la sentenza impugnata ha correttamente precisato che non vi è alcun contrasto con la decisione non definitiva la quale si era limitata ad escludere il diritto alla chiusura delle luci in quanto irregolari, senza peraltro esaminare la questione, come si è detto demandata alla prosecuzione del giudizio e al giudice del definitivo – che ha poi compiuto la relativa indagine nominando il consulente di ufficio – circa la effettiva possibilità nel caso concreto di rendere le luci conformi alle previsioni del codice.
Orbene, le critiche formulate dal ricorrente non sono idonee a scalfire la correttezza e la congruità dell’iter logico giuridico seguito dalla sentenza, che è immune da vizi. Al riguardo, va sottolineato che il vizio deducibile ai sensi dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. deve consistere in un errore intrinseco al ragionamento del giudice che deve essere verificato in base al solo esame del contenuto del provvedimento impugnato e non può risolversi nella denuncia della difformità della valutazione delle risultanze processuali compiuta dal giudice di merito rispetto a quella a cui, secondo il ricorrente, si sarebbe dovuti pervenire: in sostanza, ai sensi dell’art. 360 n. 5 citato, la (dedotta) erroneità della decisione non può basarsi su una ricostruzione soggettiva del fatto che il ricorrente formuli procedendo a una diversa lettura del materiale probatorio, atteso che tale indagine rientra nell’ambito degli accertamenti riservati al giudice di merito ed è sottratta al controllo di legittimità della Cassazione.
Il ricorso va rigettato.
Le spese della presente fase vanno poste a carico del ricorrente, risultato soccombente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore del resistente delle spese relative alla presente fase che liquida in Euro 2.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.000,00 per onorari di avvocato oltre spese forfettarie e accessori di legge.