L’autonomia contrattuale riconosciuta dall’ordinamento ai singoli consente di procedere in via negoziale, in alternativa alla via giudiziale, alla regolazione dei rapporti della comunione tra i coeredi, ivi compreso lo scioglimento della comunione limitatamente ad uno solo dei coeredi; sicché, se le parti ritengano di regolare contrattualmente lo scioglimento della comunione nei confronti di uno solo dei coeredi, non è necessario che al contratto partecipino tutti i coeredi, dal momento che ciò che è necessario ove si proceda in via giudiziale, non lo è laddove le parti procedano in via negoziale. Del resto, l’unica parte a potersi, eventualmente, dolere della mancata sottoscrizione del contratto di scioglimento è proprio il coerede che non abbia sottoscritto, più che colui a beneficio del quale è stato convenuto lo scioglimento della divisione.
Nel caso di comproprietà di beni su cui gravi un diritto di usufrutto (nella specie, comunione ereditaria con quota di usufrutto ex lege in favore del coniuge superstite, in base alla disciplina previgente alla riforma del diritto di famiglia), la partecipazione del titolare di detto usufrutto si rende necessaria nell’ipotesi di divisione giudiziale, spettando al medesimo la qualità di litisconsorte, non anche in quella di divisione contrattuale, dovendo ritenersi consentito ai comproprietari, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, di pattuire fra di essi lo scioglimento, salva restando l’inopponibilità del relativo contratto all’usufruttuario, ove implichi una lesione delle sue ragioni. (Cass. n. 1337 del 1987).
La differenza principale che intercorre tra i contratti plurilaterali e i contratti di scambio, è l’assenza del sinallagma nei primi, a differenza dei secondi. Se nei contratti plurilaterali “la prestazione di ciascuna [delle parti] è diretta al perseguimento di uno scopo comune, per modo che il contratto realizza la costituzione e l’organizzazione di un comune interesse”, nei contratti di scambio a prestazioni corrispettive “la prestazione di ciascuna parte è rivolta soltanto al soddisfacimento dell’interesse dell’altra” (Cass., S.U., 2830 del 1966; Cass. n. 4715 del 1978).
Trattandosi di contratto plurilaterale non è necessaria la sottoscrizione di tutti i coeredi, giacché lo scopo comune perseguito dai sottoscrittori è lo scioglimento della comunione solo rispetto ad uno dei coeredi, mantenendo la comunione in vita rispetto agli eredi rimanenti.
Il contratto con cui alcuni degli eredi fissano le modalità di ripartizione del patrimonio ereditario fra tutti i partecipanti alla comunione ereditaria (quomodo dividendum sit) ed assegnano a ciascuno la porzione spettantegli, vincolandosi all’osservanza del concordato assetto d’interessi, è valido in quanto, non determinando direttamente lo scioglimento della comunione, non configura una vera e propria divisione ereditaria, per la cui validità soltanto è richiesta la partecipazione di tutti i coeredi alla sua conclusione. In tale ipotesi si ha un contratto perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, immediatamente vincolante ed efficace fra le parti contraenti e destinato a conseguire il suo effetto definitivo, consistente nello scioglimento della comunione ereditaria, mediante la successiva adesione dei coeredi assenti, senza che occorra alcun ulteriore accordo o un provvedimento giudiziale sostitutivo, perché l’attribuzione dei beni ereditari abbia luogo in conformità delle pattuizioni negoziali. Siffatta adesione – ove i contraenti non abbiano diversamente disposto – può essere utilmente manifestata fino a quando il vincolo obbligatorio derivante dal contratto non sia stato sciolto per effetto di un contrario comune accordo dei contraenti o non sia intervenuto un provvedimento giudiziale di divisione che, essendo incompatibile con la ripartizione consensuale dei beni in esso prevista, ne renda impossibile l’estensione agli altri soggetti della comunione ereditaria” (Cass. n. 3529 del 1982).

Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 15 marzo – 9 ottobre 2013, n. 22977
Presidente/Relatore Petitti
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 28 luglio 1987, B.N.V. adiva il Tribunale di Genova per ottenere lo scioglimento della comunione ereditaria sui beni dell’asse ereditario del padre, B.P. , ancora in vigore tra lui e i coeredi superstiti. A tal fine, citava in giudizio i fratelli M.R. , N. e R.A. . Considerato che all’interno della comunione ricadevano non solo i beni originariamente facenti parte dell’asse del padre, B.P. , ma anche quelli successivamente acquistati dagli eredi e quelli ad essi pervenuti dall’eredità dei fratelli deceduti B.E. e C. , l’attore B.N.V. citava in giudizio altresì P.E. , B.M. , B.P. e B.A. , in qualità di eredi di Bi.Ma. , per sentire dichiarare la prescrizione del diritto del fu Bi.Ma. di accettare l’eredità dei fratelli B.E. e C. .
In particolare, N..B. formulava le seguenti conclusioni: “nei confronti di B.M.R. fu P. e per essa deceduta dei suoi eredi L.F. , L.S. vedova B. , e L.M. , nonché nei confronti di Bi.Ma. fu P. e per esso deceduto dei di lui eredi Pi.El. , Bi.Pi. , B.A. e B.R. dichiararsi prescritto il loro diritto di accettare l’eredità dei beni morendo dismessi da B.E. fu P. (deceduto l'(omissis)), in particolare delle quote a Lui intestate di 3/6 dei beni partita 585 N.C.E.U. Comune di Mignanego, di 4/8 dei beni alla partita 262 N.C.E.U. Comune di Mignanego e 1/4 dei beni a partita III catasto terreni Comune Serra Ricco, nonché di accettare l’eredità di B.C. fu P. , nata a (omissis) ed ivi deceduta il … ed in particolare della quota a lei intestata di 1/8 dei beni alla partita 262 N.C.E.U. Comune di Mignanego; nei confronti di B.N. e B.A.R.A. fu P. procedersi con l’istante B.N.V. , alla divisione per quota di 1/3 per ciascuno degli immobili tutti censiti a N.C.E.U. Comune di Mignanego alle partite 585 e 262 e a catasto terreni Comune di Serra Ricco partita III”.
Nelle more del giudizio decedevano gli eredi di B.P. rimasti in vita e parti del giudizio.
In data (omissis) decedeva B.N. , istituendo quali eredi C.E. , Bo.An.Ma. , R.N. e Bo.Ed. .
In data (omissis) decedeva B.R.A. , istituendo quale unico erede il fratello N.V. .
In data (omissis) decedeva B.N.V. , istituendo quali eredi i nipoti (figli della di lui sorella B.M. ) L.P. , L.A. , L.C. , L.M. e L.I.S. .
Il giudizio proseguiva tra gli eredi.
Gli eredi di B.N. e di B.N.V. addivenivano ad una soluzione stragiudiziale della controversia sulla divisione dell’asse ereditario, come modificato ed ampliato nel tempo a causa delle continue successioni.
Gli eredi Bi.Ma. chiedevano in via riconvenzionale: a) accertarsi e dichiararsi il loro diritto, nella qualità di eredi di Bi.Ma. , di partecipare alla divisione giudiziale dell’eredità di B.P. , chiesta da B.N.V. con atto di citazione del 28 luglio 1987, per l’inefficacia della scrittura privata datata 28 gennaio 1944 che avrebbe determinato la fuoriuscita del loro dante causa dalla comunione ereditaria de quo; e ciò sul rilievo che il detto atto doveva ritenersi invalido in quanto non sottoscritto da uno dei comunisti (segnatamente, il coerede B.E. , la cui quota era stata già liquidata all’epoca della sottoscrizione della scrittura privata in esame); b) accertarsi e dichiararsi il diritto delle parti sull’asse ereditario di B.E. e su quello di B.C. , attesa l’infondatezza della domanda attorea volta a far dichiarare la prescrizione del diritto di Bi.Ma. di accettare l’eredità dei di lui fratelli; c) accertarsi e dichiararsi l’invalidità dei testamenti pubblici di B.R.A. e di B.N.V. .
Il Tribunale di Genova, con sentenza n. 4343 del 2002, dichiarava cessata la materia del contendere riguardo alla domanda di scioglimento della comunione ereditaria tra gli eredi testamentari dell’originario attore, N.V..B. , già costituitosi anche quale erede universale della sorella A..B. , deceduta in corso di causa, P..L. , L.M. , A..L. , C..L. e M.R..B. , nella qualità di procuratore generale di L.I.S. , e tra gli eredi di N..B. , deceduto in corso di causa, C.E. , An.Ma..Bo. , N..R. ed E..B. .
Con la medesima sentenza, il Tribunale rigettava le domande riconvenzionali spiegate P.E. o El. , B.P. , A..B. e M..B. – i quali, convenuti in giudizio nella qualità di eredi di Bi.Ma. per sentir dichiarare l’intervenuta prescrizione, ai sensi dell’art. 480, primo comma, cod. civ., del loro diritto di accettare l’eredità dei beni morendo dismessi da C..B. e da B.E. – avevano fatto valere il loro diritto a partecipare alla divisione, oggetto di causa, del patrimonio relitto da B.P. , deceduto il (OMISSIS) , padre del loro dante causa Ma..Bi. , e avevano altresì fatto valere pretese in ordine alle eredità dei fratelli premorti di Ma..Bi. , C. ed E. , nonché avevano contestato la validità del testamento pubblico di A..B. , con il quale era stato designato erede universale il fratello N.V..B. , e il testamento pubblico di quest’ultimo.
In particolare, il Tribunale escludeva la perdurante sussistenza della comunione relativa all’eredità di P..B. , affermando la validità e l’efficacia della scrittura in data 28 gennaio 1944, sottoscritta da Ma..Bi. , con la quale era stata liquidata la di lui quota dell’eredità paterna, tramite l’assegnazione dei beni immobili ivi indicati e la rinuncia del medesimo Ma..Bi. a vantare ulteriori diritti in ordine ai beni residuati in comunione agli altri quattro fratelli; riteneva che vi fosse carenza di precisi riferimenti temporali quanto alle istanze istruttorie formulate in ordine alla asserita non intervenuta prescrizione del diritto di accettare le eredità e che non sussistessero sufficienti motivi per dubitare della validità dei testamenti pubblici di B.R.A. e B.N.V. , nei confronti dei quali testamenti, peraltro, non era stata proposta querela di falso.
I soccombenti P.E. , B.P. , B.A. e B.M. interponevano tempestivo appello avverso detta sentenza innanzi alla Corte d’appello di Genova, chiedendo, previa ammissione delle istanze istruttorie formulate in primo grado e di quelle richieste nel giudizio di appello, in totale riforma della sentenza impugnata: di respingere le domande attoree relative alla esclusione degli appellanti dalla divisione dei beni oggetto di causa; di procedere nei modi e nelle forme di legge alla valutazione di detti beni, detratte le passività e computate le attività, con ordine agli attori di esibire il rendiconto su quanto prelevato dalla eredità de quo e di procedere alla divisione dei beni in comunione ereditaria; con vittoria di spese.
Si costituivano tutti gli appellati, chiedendo il rigetto del gravame.
La Corte d’appello di Genova, con la sentenza n. 632 del 2006, rigettava la domanda degli appellanti, confermando integralmente la sentenza n. 4343 del 2002 del Tribunale di Genova. In applicazione del principio della soccombenza, gli appellanti, totalmente soccombenti, venivano condannati, tra loro in solido, alla rifusione delle spese del giudizio di appello agli appellati.
Per la cassazione di detta sentenza hanno proposto ricorso, sulla base di tre motivi, P.E. , B.P. , B.A. e B.M. .
Hanno resistito, con separati controricorsi, i sigg.ri C.E. , B.A.M. , R.N. e Bo.Ed. ; la sig.ra B.M.R. , in qualità di procuratrice di L.I.S. ; il sig. L.P. , in proprio e nella qualità di erede di L.G. , tutti chiedendo il rigetto del ricorso. Non hanno svolto attività difensiva gli intimati L.M. e Br.Ma. .
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso ha ad oggetto la validità (dichiarata dal Tribunale di Genova e confermata dalla Corte d’appello) della scrittura privata datata 18 gennaio 1944, con la quale il coerede Bi.Ma. abbandonava la comunione ereditaria formatasi al decesso del padre, B.P. .
1.1. Sotto un primo profilo, i ricorrenti deducono violazione o falsa applicazione degli articoli 1419, 1420, 1111, 1116, 757, 758 cod. civ., ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello erroneamente applicato le disposizioni in materia di contratti plurilaterali, scioglimento della comunione e divisione ereditaria. In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366-ibis cod. proc. civ.: “Dica la Corte se non sia incorsa in violazione di legge la Corte d’appello genovese allorché non ha ritenuto che lo scioglimento della partecipazione alla comunione ereditaria di un solo partecipante non richieda la partecipazione essenziale di tutti gli altri partecipanti alla comunione e ciò con riferimento agli artt. 1420 ultima parte, 1419, 1111, 1116, e 757 e ss. cod. civ.”.
1.2. I ricorrenti denunciano poi difetto di motivazione, o quantomeno insufficiente motivazione, su un punto essenziale della controversia in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per una asserita carenza motivazionale della sentenza sulla non essenzialità della sottoscrizione della scrittura privata de quo da parte di tutti i coeredi. In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: “Dica la Corte di Cassazione se la Corte d’appello genovese non sia incorsa in vizio di insufficiente motivazione allorché, nel deliberare se doveva ritenersi necessaria o meno la partecipazione di tutti i partecipanti alla comunione ereditaria al negozio con cui era prevista l’esclusione del coerede Ma..Bi. , si è limitata ad affermare la diversità tra la fattispecie “divisione ereditaria” e la fattispecie “scioglimento della comunione limitatamente ad un solo partecipante”, affermando non essere emerso alcun elemento che, dal punto di vista soggettivo, potesse far inferire che i fratelli rimasti in comunione costituissero un’unica parte complessa e non ha affrontato, senza motivare, il tema delle conseguenze della mancata partecipazione al negozio di alcuni eredi”.
1.3. I ricorrenti denunciano altresì difetto o insufficiente motivazione su un punto essenziale della controversia in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., dolendosi del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto pacifica, ma in modo apodittico, l’avvenuta esecuzione della scrittura privata. In conclusione, si chiede alla Corte di Cassazione “se la motivazione della Corte d’appello genovese non sia viziata da difetto o insufficiente motivazione nel punto in cui ha affermato pacifico, senza alcuna ulteriore spiegazione, che la scrittura del 28/01/1944 avrebbe avuto pacifica esecuzione tra i coeredi”.
1.4. Ulteriormente, i ricorrenti lamentano difetto o insufficiente motivazione su un punto essenziale della controversia, per avere la Corte d’appello affermato che il trascorrere del tempo avrebbe consolidato, per effetto di intervenuta usucapione, gli assetti proprietari sui beni parte dell’eredità de quo. In conclusione, si chiede di accertare “se la Corte d’appello genovese non sia incorsa nel vizio denunciato allorché ha affermato consolidato l’assetto proprietario dei beni caduti nell’asse ereditario di B.P. , in mancanza di domande specifiche delle parti sull’intervenuta usucapione”.
1.5. Ed ancora, i ricorrenti deducono il vizio di contraddittorietà della motivazione su un punto essenziale della controversia, relativamente alle affermazioni circa l’interpretazione del ruolo dei coeredi quali parti del contratto di liquidazione della quota ereditaria spettante a Bi.Ma. (la scrittura privata 18 gennaio 1944). In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito: “Dica la Corte di Cassazione se la Corte d’appello genovese non sia incorsa nel vizio denunciato di contraddittorietà della motivazione allorché, da un lato, afferma che la volontà comune delle parti era diretta al conseguimento dello scopo di liquidare la quota di Bi.Ma. escludendolo dalla comunione e, dall’altro lato, afferma non risultare la volontà delle parti di considerarsi un’unica parte complessa cosicché l’esecuzione del negozio presupponesse la partecipazione unitaria e globale di tutti i fratelli”.
2. Il primo motivo di ricorso, che può essere esaminato complessivamente stante la unitarietà delle questioni proposte, non è fondato.
2.1. La Corte d’appello è giunta a confermare la validità e l’efficacia della scrittura privata del 28 gennaio 1944, sulla base di un ragionamento coerente e corretto, tanto da un punto di vista logico, quanto da un punto di vista giuridico.
La Corte d’appello ha, invero, ritenuto che l’autonomia contrattuale riconosciuta dall’ordinamento ai singoli consente di procedere in via negoziale, in alternativa alla via giudiziale, alla regolazione dei rapporti della comunione tra i coeredi, ivi compreso lo scioglimento della comunione limitatamente ad uno solo dei coeredi; sicché, se le parti ritengano di regolare contrattualmente lo scioglimento della comunione nei confronti di uno solo dei coeredi, non è necessario che al contratto partecipino tutti i coeredi, dal momento che ciò che è necessario ove si proceda in via giudiziale, non lo è laddove le parti procedano in via negoziale. Del resto, l’unica parte a potersi, eventualmente, dolere della mancata sottoscrizione del contratto di scioglimento è proprio il coerede che non abbia sottoscritto, più che colui a beneficio del quale è stato convenuto lo scioglimento della divisione.
In tal modo, la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio affermato da questa Corte, secondo cui “nel caso di comproprietà di beni su cui gravi un diritto di usufrutto (nella specie, comunione ereditaria con quota di usufrutto ex lege in favore del coniuge superstite, in base alla disciplina previgente alla riforma del diritto di famiglia), la partecipazione del titolare di detto usufrutto si rende necessaria nell’ipotesi di divisione giudiziale, spettando al medesimo la qualità di litisconsorte, non anche in quella di divisione contrattuale, dovendo ritenersi consentito ai comproprietari, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, di pattuire fra di essi lo scioglimento, salva restando l’inopponibilità del relativo contratto all’usufruttuario, ove implichi una lesione delle sue ragioni” (Cass. n. 1337 del 1987).
La Corte d’appello ha poi chiarito che la scrittura privata del 28 gennaio 1944 rientrava nel novero dei contratti plurilaterali, di cui agli articoli 1420, 1466 cod. civ., poiché con essa le parti avevano inteso perseguire uno scopo comune (lo scioglimento della comunione nei confronti di Bi.Ma. , ferma restando la situazione di comunione tra gli altri eredi del comune dante causa B.P. ), senza che vi fossero prestazioni corrispettive, come nei contratti di scambio.
La differenza principale che intercorre tra i contratti plurilaterali e i contratti di scambio, infatti, è l’assenza del sinallagma nei primi, a differenza dei secondi. Se nei contratti plurilaterali “la prestazione di ciascuna [delle parti] è diretta al perseguimento di uno scopo comune, per modo che il contratto realizza la costituzione e l’organizzazione di un comune interesse”, nei contratti di scambio a prestazioni corrispettive “la prestazione di ciascuna parte è rivolta soltanto al soddisfacimento dell’interesse dell’altra” (Cass., S.U., 2830 del 1966; Cass. n. 4715 del 1978).
La Corte d’appello ha chiarito che la scrittura privata de quo rientrava nel novero dei contratti plurilaterali, di cui agli articoli 1420, 1466 cod. civ., poiché con essa le parti avevano inteso perseguire uno scopo comune (lo scioglimento della comunione nei confronti di Bi.Ma. ), senza che vi fossero prestazioni corrispettive, come nei contratti di scambio.
E trattandosi di contratto plurilaterale non era necessaria la sottoscrizione di tutti i coeredi, giacché lo scopo comune perseguito dai sottoscrittori era lo scioglimento della comunione solo rispetto ad uno dei coeredi, mantenendo la comunione in vita rispetto agli eredi rimanenti.
Appare, quindi, inconferente il richiamo svolto da parte ricorrente alle disposizioni in materia di divisione ereditaria e di scioglimento della comunione in generale, considerato che a seguito della scrittura privata de quo, la comunione ereditaria è rimasta attiva ed è stata poi sciolta solo col giudizio di divisione instaurato nel 1987.
Trattasi di affermazioni che trovano conforto nel principio, affermato da questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo cui “il contratto con cui alcuni degli eredi fissano le modalità di ripartizione del patrimonio ereditario fra tutti i partecipanti alla comunione ereditaria (quomodo dividendum sit) ed assegnano a ciascuno la porzione spettantegli, vincolandosi all’osservanza del concordato assetto d’interessi, è valido in quanto, non determinando direttamente lo scioglimento della comunione, non configura una vera e propria divisione ereditaria, per la cui validità soltanto è richiesta la partecipazione di tutti i coeredi alla sua conclusione. In tale ipotesi si ha un contratto perfetto in tutti i suoi elementi essenziali, immediatamente vincolante ed efficace fra le parti contraenti e destinato a conseguire il suo effetto definitivo, consistente nello scioglimento della comunione ereditaria, mediante la successiva adesione dei coeredi assenti, senza che occorra alcun ulteriore accordo o un provvedimento giudiziale sostitutivo, perché l’attribuzione dei beni ereditari abbia luogo in conformità delle pattuizioni negoziali. Siffatta adesione – ove i contraenti non abbiano diversamente disposto – può essere utilmente manifestata fino a quando il vincolo obbligatorio derivante dal contratto non sia stato sciolto per effetto di un contrario comune accordo dei contraenti o non sia intervenuto un provvedimento giudiziale di divisione che, essendo incompatibile con la ripartizione consensuale dei beni in esso prevista, ne renda impossibile l’estensione agli altri soggetti della comunione ereditaria” (Cass. n. 3529 del 1982).
Pertanto, esclusa la invalidità e la inefficacia della scrittura del 1944, deve solo rilevarsi che nel controricorso di B.M.R. si è evidenziato che gli eredi di Bi.Ma. avevano impostato la propria linea difensiva proprio sulla esistenza ed efficacia della citata scrittura, formulando anche una richiesta di prova testimoniale sul punto; e tale deduzione è rimasta priva di controdeduzioni da parte dei ricorrenti.
2.2. Anche le censure rivolte alla motivazione della sentenza impugnata appaiono prive di fondamento.
I ricorrenti eccepiscono la insufficienza della motivazione, con riguardo alla decisione della Corte di non ritenere essenziale la partecipazione di B.E. alla sottoscrizione della scrittura privata, ai fini di una eventuale declaratoria di nullità, ai sensi dell’art. 1420 cod. civ..
La non essenzialità della partecipazione di B.E. deriva dal fatto che la Corte ha ritenuto la scrittura in esame un contratto plurilaterale rivolto allo scioglimento della comunione rispetto ad uno dei coeredi, e non un contratto di divisione ereditaria. Il punto è stato sufficientemente argomentato dalla Corte territoriale e con il motivo di ricorso sub 1.2. i ricorrenti non aggiungono profili ulteriori rispetto alle censure contenute nel motivo di cui al punto 1.1., di cui si è detto.
Le censure di cui ai punti 1.3. e 1.4. vanno rigettate perché la motivazione della sentenza impugnata è logica e coerente.
Invero, con il motivo di cui al punto 1.3., si imputa alla Corte d’appello di avere ritenuto circostanza pacifica quella che la scrittura avesse avuto esecuzione; ma la Corte correttamente ha inferito tale conseguenza dalla interpretazione della scrittura privata de quo. Trattasi di un fatto rilevante, verso il quale non è mai stata mossa alcuna obiezione, come eccepito, sul punto, nel controricorso B.M.R. .
Con il motivo di cui al punto 1.4., i ricorrenti censurano la ritenuta stabilizzazione degli assetti proprietari per usucapione, atteso il trascorrere di molti anni dalla scrittura privata in esame. La censura è infondata perché non riguarda un fatto controverso, ma si riferisce ad un argomento richiamato utilizzato dalla Corte territoriale nel contesto di una motivazione logica e coerente.
L’ultima censura di cui si compone il primo motivo di ricorso è quella di cui al punto 1.5. I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui la Corte territoriale, da un lato, ha affermato che lo scopo dei coeredi era quello di liquidare la quota di Bi.Ma. e, dall’altro, ha affermato che i coeredi non dovessero esser considerati “un’unica parte complessa”, di modo che l’esecuzione del negozio implicasse la partecipazione unitaria di tutti i coeredi.
Il motivo è infondato. Affermare, come ha fatto la Corte territoriale, che lo scopo comune degli eredi B.P. era quello di sciogliere la comunione limitatamente al coerede Bi.Ma. non è in contraddizione con l’affermazione secondo la quale i coeredi non costituivano “un’unica parte complessa”. È perfettamente logico ritenere che i coeredi rimasti in comunione abbiano agito nella loro individualità di comproprietari, per lo scopo comune di liquidare la quota del fratello Bi.Ma. e che per l’esecuzione di tale contratto non fosse necessaria la sottoscrizione di tutti i coeredi, perché, secondo le osservazioni ampiamente sviluppate in precedenza, essendo il contratto de quo un contratto plurilaterale, la partecipazione di B.E. non era essenziale, sicché la sua mancata sottoscrizione del detto accordo non poteva invalidare l’intero schema contrattuale, ai sensi dell’art. 1420 cod. civ.
3. Il secondo motivo di ricorso riguarda il capo della sentenza impugnata relativo alla accertata prescrizione del diritto di Bi.Ma. , e per esso dei suoi eredi, di accettare l’eredità dei fratelli B.E. e B.C. .
I ricorrenti denunziano la omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello omesso di considerare la deduzione di apposito capitolo di prova sulla attività svolta da Bi.Ma. per addivenire alla divisione delle eredità dei fratelli; attività, questa, a dire dei ricorrenti, sicuramente indicativa della volontà di accettare.
3.1 II motivo di ricorso non è fondato.
Occorre premettere che la Corte d’appello ha fatto corretta applicazione del principio per cui “l’accettazione tacita di eredità può desumersi soltanto dall’esplicazione di un’attività personale del chiamato tale da integrare gli estremi dell’atto gestorio incompatibile con la volontà di rinunziare, e non altrimenti giustificabile se non in relazione alla qualità di erede, con la conseguenza che non possono essere ritenuti atti di accettazione tacita quelli di natura meramente conservativa che il chiamato può compiere anche prima dell’accettazione, ex art. 460 cod. civ.. L’indagine relativa alla esistenza o meno di un comportamento qualificabile in termini di accettazione tacita, risolvendosi in un’accertamento di fatto, va condotta dal giudice di merito caso per caso (in considerazione delle peculiarità di ogni singola fattispecie, e tenendo conto di molteplici fattori, tra cui quelli della natura e dell’importanza, oltreché della finalità, degli atti di gestione), e non è censurabile in sede di legittimità, purché la relativa motivazione risulti immune da vizi logici o da errori di diritto” (Cass. n. 12753 del 1999). In particolare, si è affermato, “l’immissione nel possesso dei beni ereditari è atto non univoco, che, di per sé considerato, non equivale necessariamente ad accettazione tacita dell’eredità, poiché non presuppone necessariamente, in chi lo compie, la volontà di accettare e la qualità di erede, potendo anche dipendere da un mero intento conservativo del chiamato o da tolleranza da parte degli altri chiamati” (Cass. n. 12753 del 1999, cit.; Cass. n. 20868 del 2005).
Tanto premesso, i ricorrenti deducono che i giudici del gravame non avrebbero motivato la mancata ammissione di un capitolo di prova decisivo per l’accertamento della avvenuta accettazione tacita delle eredità morendo dismesse da B.C. , deceduta il 3 marzo 1949 e da B.E. , deceduto l'(OMISSIS) , da parte del loro dante causa, Bi.Ma. .
I ricorrenti, nonostante si mostrino edotti del fatto che nel giudizio di legittimità l’unico spazio che residua, per la censura delle statuizioni del giudice di merito sulle istanze e sulle risultanze probatorie, sia quello del vizio consistente nella omessa o arbitraria e/o illogica motivazione sulle decisioni assunte, svolgono, tuttavia, delle riflessioni dalle quali traspare l’intenzione di sollecitare una nuova valutazione degli elementi che quei capitoli di prova intendevano provare.
Invero, dopo aver illustrato la rubrica del motivo di ricorso, censurando, come detto, l’omessa motivazione sulla ammissibilità di un capitolo di prova, parte ricorrente svolge delle riflessioni sull’errore in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, allorché ha confermato la decisione del Tribunale genovese nel senso di riconoscere l’intervenuta prescrizione del diritto di Bi.Ma. di accettare le eredità morendo dismesse dai fratelli.
In realtà, il denunciato vizio non sussiste, atteso che nella sentenza impugnata, a pag. 25, dopo che nelle precedenti pagine sono stati illustrati gli approdi della giurisprudenza di legittimità in materia di accettazione tacita dell’eredità, e si sono evidenziate le condotte che, secondo gli appellanti, avrebbero dovuto indurre a ritenere che il loro dante causa Bi.Ma. aveva tacitamente accettato le eredità di B.C. ed E. , si afferma che “difettano totalmente atti incompatibili con la volontà di rinunciare o concludenti e significativi della volontà di accettare le eredità in questione e che le circostanze offerte a prova per testi, quand’anche dimostrate, non varrebbero a fondare l’instata riforma della gravata decisione”.
Ed è noto che “il vizio di motivazione per omessa ammissione della prova testimoniale ovvero per omesso esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, quando la prova non ammessa ovvero non esaminata sia in concreto idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento” (Cass. n. 3075 del 2006; Cass. n. 11457 del 2007; Cass. n. 5377 del 2011).
Nel caso in esame, dalla sentenza impugnata risulta chiaramente quale sia stato l’iter seguito dalla Corte territoriale per giustificare il rigetto del gravame degli appellanti in ordine alla ritenuta prescrizione del diritto di accettare l’eredità da parte del loro dante causa. Nel ragionamento della Corte territoriale non risultano omissioni o aporie tali da determinare la cassazione della sentenza sul punto denunziato dagli odierni ricorrenti. Si può solo aggiungere che, come rilevato dalla controricorrente B.M.R. (pag. 19), già nella sentenza di primo grado si era affermato che il capitolo di prova per testi, la cui mancata ammissione non sarebbe stata adeguatamente motivata dalla Corte d’appello, non era stato ammesso perché generico e privo di precisi riferimenti di tempo, e perciò non utile a superare l’eccezione formulata ex art. 480 cod. civ..
4. Il terzo motivo di ricorso riguarda la validità dei testamenti pubblici di B.N.V. e B.E. e si articola in varie censure.
4.1. Sotto un primo profilo, i ricorrenti denunciano omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per avere la Corte d’appello affermato che i ricorrenti non avrebbero contestato i testamenti de guibus con la querela di falso nonostante questi fossero stati prodotti in giudizio, poiché in giudizio sarebbero state prodotte solo delle trascrizioni e non delle copie dei testamenti. In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: “Dica la Corte di Cassazione se la Corte d’appello genovese non sia incorsa nel vizio denunciato allorché non ha motivato il perché ha ritenuto prodotti in giudizio i testamenti integrali di B.E. e N.V. benché nella realtà risultassero prodotte solo copie non portanti le firme”.
4.2. Sotto altro profilo, i ricorrenti lamentano violazione degli articoli 2699, 2700, 2702, 2715 cod. civ., in relazione agli articoli 215, 221, cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale ritenuto non contestati i testamenti de quibus, nonostante non fosse stata prodotta in giudizio copia degli stessi tale da consentire, agli odierni ricorrenti, adeguata contestazione. In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito di diritto, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ.: “Dica la Corte di Cassazione se la Corte d’appello genovese non sia incorsa nel vizio di violazione degli articoli di legge denunciati allorché ha ritenuto non contestate le scritture testamentarie prodotte – e, quindi, legalmente riconosciute – ed ha dichiarato non proposta tempestivamente la querela di falso malgrado che nel giudizio non fossero mai stati prodotti i documenti contenenti le firme dei testatori”.
4.3. Da ultimo, i ricorrenti denunciano il vizio di omessa motivazione su un punto essenziale della controversia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché la Corte territoriale non avrebbe svolto alcuna motivazione in ordine al testamento di B.N.V. . In conclusione viene posto alla Corte il seguente quesito “se la Corte d’appello genovese non sia incorsa nel vizio di omessa motivazione, allorché non si è pronunciata sull’istanza di parte appellante perché venisse ordinata in giudizio l’esibizione della scheda testamentaria originale di B.N.V. “.
5. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
5.1. È innanzitutto inammissibile nella parte in cui le censure vengono svolte anche con riferimento al testamento di B.E. .
Invero, nel corso dei giudizi di merito sono stati contestati dagli odierni ricorrenti i testamenti pubblici dei coeredi B.R.A. e B.N.V. .
Con il presente ricorso, gli odierni ricorrenti, nel mentre nulla eccepiscono in merito alle statuizioni della Corte d’appello sulla validità del testamento pubblico di B.R.A. , sulle quali, ai sensi dell’art. 329 cod. proc. civ., si è, quindi, formato giudicato, svolgono le proprie censure con riferimento sia al testamento di B.N.V. , sia a quello di B.E. , impugnando taluni passi della sentenza della Corte genovese che si riferiscono al testamento di quest’ultimo.
Deve rilevarsi che i punti in cui la sentenza impugnata disquisisce sul testamento di B.E. sono affetti da errore materiale, in quanto chiaramente i giudici del gravame intendevano argomentare sul testamento di B.N.V. , come dimostrano il contenuto di quelle proposizioni, chiaramente riferito al testamento di quest’ultimo; gli altri passi della sentenza, riferiti a B.N.V. ; l’atto di appello che aveva investito la Corte genovese delle domande concernenti la validità dei testamenti di B.R.A. e B.N.V. . Parte ricorrente dimostra di non essersi avveduta di questo manifesto errore materiale e svolge le proprie censure come se realmente la Corte territoriale avesse inteso pronunziare sul testamento di B.E. .
Orbene, il motivo di ricorso in esame, nella parte in cui si riferisce al testamento di B.E. , è inammissibile perché assolutamente inconferente con il reale contenuto delle statuizioni della sentenza impugnata riferite, per errore materiale, ad altro soggetto rispetto a quello inteso da parte ricorrente. In ogni caso, si deve rilevare che la censura sarebbe stata parimenti inammissibile laddove si fosse trattato non di errore materiale, ma di effettiva ultrapetizione, poiché, secondo l’orientamento di questa Corte sia la omessa pronunzia su una domanda o un’eccezione, che la pronunzia su questione non devoluta mediante domanda proposta dalle parti (come la pronunzia sul testamento di un erede, il cui accertamento non era mai stato oggetto di domande, né eccezioni) cagionano la nullità del procedimento impugnabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, cod. proc. civ.; censura questa non proposta né desumibile dal contenuto del motivo.
5.2. Cosi dovendosi interpretare il contenuto della sentenza impugnata risulta all’evidenza infondata la censura di vizio di motivazione concernente i rilievi relativi al testamento di B.N.V. , atteso che le considerazioni svolte dalla Corte d’appello in riferimento al testamento di E..B. , del quale mai si è discusso nei precedenti gradi di giudizio e che certamente non aveva formato oggetto dei motivi di gravame, devono in realtà essere riferite al testamento di B.N.V. .
5.3. Per la parte in cui il motivo non è inammissibile, e cioè nella parte in cui viene censurata la sentenza impugnata relativamente alle statuizioni adottate con riferimento alle questioni concernenti il testamento di N.V..B. , il terzo motivo di ricorso è infondato.
Si deve innanzitutto rilevare che il testamento per cui si discute, quello di B.N.V. , era stato redatto nella forma dell’atto pubblico. Dunque, ai sensi dell’art. 2700 cod. civ., esso fa piena prova fino a querela di falso. La querela di falso costituisce “lo strumento imprescindibile per neutralizzare il valore probatorio del documento prodotto” e il relativo onere incombe sulla parte che intenda “contestare la piena efficacia probatoria, circa quanto avvenuto o compiuto alla presenza o con l’intervento del pubblico ufficiale rogante, di un atto pubblico o di una copia dello stesso prodotta dall’avversario” (Cass. n. 5411 del 1984).
In conformità alla lettera degli articoli 2699 e 2700 cod. civ., la querela di falso costituisce, quindi, l’unico mezzo che l’ordinamento offre alla parte che intenda contrastare la fede privilegiata degli atti pubblici.
Ciò premesso, il Tribunale prima e la Corte d’appello poi hanno correttamente posto a carico degli odierni ricorrenti le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla mancata proposizione della querela poiché, effettivamente, i ricorrenti non l’hanno proposta e, quindi, vi è stata, da parte della Corte territoriale, una corretta e lineare applicazione degli articoli 2699 e 2700 cod. civ..
La asserita impossibilità di proporre la querela di falso fonda su un assunto non desumibile dalla sentenza impugnata né dagli atti del presente giudizio di legittimità.
Parte ricorrente si duole perché in giudizio non sarebbe stato prodotto né l’originale, né una copia idonea per la proposizione della querela ai sensi dell’art. 2715 cod. civ., sicché le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla mancata proposizione della querela sarebbero state arbitrariamente ed illegittimamente poste a loro carico dalla Corte territoriale.
Premessa l’indefettibile necessità della querela per contrastare la pubblica fede del testamento de quo, l’assunto di partenza dei ricorrenti muove da una premessa non risultante – ed anzi smentita – dalla sentenza impugnata, nella quale si afferma che il testamento in esame era stato prodotto in causa, seppure in copia (v. pag. 29 della sentenza impugnata: “i testamenti pubblici in questione sono stati prodotti in copia autentica nel grado pregresso da B.M.R. “).
5.3. I ricorrenti si dolgono perché la copia prodotta sarebbe stata priva di sottoscrizione e quindi inidonea a produrre gli effetti che le copie, ai sensi dell’art. 2715 cod. civ., sono destinate a produrre. Tra tutti, quello di consentire, alla parte avversaria, di proporre querela di falso.
Il motivo è infondato. In disparte il rilievo che nella sentenza impugnata si da atto – come già rilevato dell’avvenuta produzione nel grado pregresso in copia autentica dei testamenti pubblici in questione – e quindi anche di quello di B.V. -, da parte di B.M.R. , i ricorrenti omettono di considerare che, nel caso di specie, si trattava di testamenti pubblici, e cioè di documenti redatti da notaio, rispetto ai quali l’unico rimedio esperibile era la querela di falso, a prescindere dalla produzione dell’originale in giudizio, essendo a tal fine sufficiente la produzione della copia, non tempestivamente disconosciuta, come nel caso di specie.
6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, in applicazione del principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, in favore di ciascuna parte controricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida, per ciascuna parte controricorrente, in complessivi Euro 5.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi e agli accessori di legge.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *