Per la determinazione dell’assegno di mantenimento dovuto dai genitori in favore dei figli è necessaria la valutazione delle capacità economico-patrimoniali di ciascun genitore effettuata tenuto di conto dei redditi da lavoro autonomo o subordinato, ad ogni altra utilità patrimoniale effettiva o potenziale, (valore di beni mobili o immobili in proprietà oppure in godimento, partecipazioni societarie), ma anche delle capacità di lavoro professionale o casalingo, sebbene non realizzate. Il tenore di vita precedentemente goduto non rappresenta un criterio assoluto, dovendo essere seguito nei limiti di ciò che consente il reddito dei genitori, visto che la separazione della coppia conduce solitamente ad un aumento di spesa per ciascuna parte in conseguenza della cessazione dell’organizzazione domestica comune.
Corte di Cassazione, sez. I Civile, sentenza 19 marzo – 17 maggio 2013, n. 12076
Presidente Carnevale – Relatore Cultrera
Svolgimento del processo
Con sentenza del 21 dicembre 2006 il Tribunale di Parma dichiarava la separazione personale dei
coniugi F..Z. e P.M. respingendo le reciproche domande di addebito, affidava la figlia minore ad
entrambi i genitori con domicilio presso la madre regolando il diritto di visita del padre, poneva a
carico del marito il contributo per il mantenimento della figlia nella misura di Euro 2.000,00 mensili
ed in favore della moglie in Euro 1.000,00 mensili. Nulla disponeva in ordine alla casa coniugale
ma imponeva al P. di versare alla moglie, quale contributo per l’affitto di altro alloggio, la somma
mensile di Euro 2.000,00 qualora l’usufruttuaria della casa coniugale C..R. , che l’aveva concessa in
comodato al figlio M. , nudo proprietario, intervenuta in giudizio per chiederne la revoca
dell’assegnazione alla Z. , non avesse consentito al godimento gratuito di casa ed arredi.
Venivano proposti separati appelli dalle parti principali.
Il P. chiedeva la riduzione dell’assegno per il mantenimento della figlia e della moglie e si doleva
dell’illegittimità della statuita determinazione di ulteriore contributo per la casa familiare per
l’ipotesi in cui la madre non avesse consentito all’utilizzo della casa abitata dalla Z. . Quest’ultima
insisteva per il rigetto della domanda proposta nei suoi confronti e chiedeva l’assegnazione della
casa familiare, nonché modifica migliorativa dell’assegno di mantenimento nell’ipotesi in cui
l’usufruttuaria non avesse più consentito l’uso gratuito dell’immobile. La R. si costituiva e chiedeva
il rigetto della domanda proposta dalla nuora.
Riuniti gli appelli, con sentenza del 25 maggio 2007 – 4 febbraio 2008, la Corte di Appello di
Bologna aumentava ad Euro 2000,00 l’importo dell’assegno di mantenimento a favore della Z. ,
assegnava a quest’ultima il godimento della casa coniugale, revocava la statuizione concernente
l’incremento dell’assegno per l’eventuale locazione dell’immobile, che avrebbe dovuto esser disposto
in successivo giudizio di revisione, e confermava nel resto. Avverso tale sentenza ha proposto
ricorso per Cassazione il P. deducendo cinque motivi illustrati con memoria. Hanno resistito con
controricorso la Z. e la R. . Quest’ultima ha altresì proposto ricorso incidentale affidato ad unico
mezzo, illustrato anch’esso con memoria difensiva, resistito dalla Z. con controricorso.
Motivi della decisione
Si dispone in linea preliminare la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c. in quanto proposti
avverso la stessa decisione.
Col primo motivo del ricorso principale, denunciando violazione del principio devolutivo in ordine
all’assegnazione della casa familiare alla Z. , il ricorrente P. ascrive alla Corte del merito d’aver
provveduto in assenza di gravame alla revoca dello statuito incremento del contributo per affitto da
parte della predetta di altro appartamento. Soggiunge a conforto che quest’ultima chiese
l’assegnazione della casa familiare, non disposta dal primo giudice in assenza del necessario
consenso dell’usufruttuaria, e la conferma e non già la riforma del cennato obbligo di versamento
del contributo. Il quesito di diritto formulato a conclusione chiede se il giudice d’appello viola l’art.
436 c.p.c. che sancisce il principio devolutivo in fase di gravame se decide questione di cui non è
investito avendo l’appellante chiesto conferma e non riforma della sentenza appellata né l’altra parte
avendola impugnata in parte qua.
La resistente deduce infondatezza della censura e chiarisce che il P. chiese la riforma della
decisione gravata in parte qua perché la pronuncia era stata inserita erroneamente nel capo relativo
alla casa coniugale vincolandolo non già agli interessi della prole ma all’arbitrio di un terzo, ed essa
appellante incidentale chiese l’aumento della misura del contributo già attribuitole dal giudice di
prima istanza non già come misura sostitutiva all’assegnazione ma ad ulteriore a tutela degli
interessi della figlia minore. Il motivo è infondato. Ha osservato la Corte territoriale in relazione all’assegnazione della casa coniugale alla Z. , che
nelle conclusioni rassegnate nel suo appello incidentale, puntualmente trascritte nella sentenza
impugnata, ne aveva chiesto l’assegnazione, e che la R. , usufruttuaria del cespite, aveva rinunciato
alla sua domanda e l’abitazione era pertanto rimasta nella disponibilità della nuora che ivi viveva
con la figlia minore, del cui preminente interesse alla conservazione del suo habitat, suo effettivo
domicilio, occorreva necessariamente tenersi conto. Avverso questo percorso argomentativo,
adeguatamente e logicamente illustrato, il mezzo in esame, peraltro confusamente articolato,
indirizza critica priva di fondamento stante la precisa devoluzione della questione al giudice
dell’appello, nonché generica, che non ne lascia palesare il sottostante interesse.
Si conclude peraltro con quesito di diritto che richiama astratto e tautologico enunciato senza
collegarlo alla fattispecie concreta.
Col secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1809 c.c. e
censura la statuizione impugnata laddove afferma che l’abitazione che costituì la casa familiare
venne acquistata in vista del suo matrimonio. Riepiloga all’uopo la scansione in fatto della vicenda
acquisitiva, a partire dal momento del compromesso sino al rogito che nel 1992 ne consacrò
l’acquisto, per tranne la conferma, esclusa dal giudice del gravame, che la casa, che venne abitata
dal suo nucleo familiare nel 1993, cinque anni dopo la stipula del preliminare, non poteva ritenersi
soggetta al ravvisato vincolo di destinazione perché insussistente, e rimasto peraltro indimostrato. Il
quesito di diritto chiede se l’art. 1809 comma 2 e.e. sia applicabile qualora la costituzione di
usufrutto a favore della madre, contestualmente all’acquisto dell’immobile da parte del figlio nudo
proprietario, poi adibito a casa familiare di quest’ultimo e l’acquisto sia antecedente al matrimonio e
chi ne chiede l’assegnazione non abbia provato l’effettiva volontà delle parti.
La resistente deduce infondatezza della censura.
Il mezzo in esame merita la sorte del precedente. Argomenta la censura in cui si articola con
riferimento a circostanze di fatto che la Corte del merito ha esaminato e quindi apprezzato,
reputandole concludenti in quanto univocamente idonee a dimostrare la destinazione impressa
dall’usufruttuaria all’immobile sin dal suo acquisto proprio in vista del matrimonio del figlio, nudo
proprietario, del resto confermata dalla lettera speditagli dalla predetta in data 30 gennaio 2004 in
cui, chiedendo la restituzione dell’immobile, faceva esplicito riferimento alla sua concessione in
godimento a titolo precario. Illustrata con tessuto motivazionale puntuale ed esaustivo, e conforme
al principio enunciato nella pronuncia delle Sezioni Unite n. 13603/2004, la decisione è censurata
con riguardo al vaglio critico condotto sui fatti ed al risultato che ne ha tratto il giudice del merito,
che non è sindacabile in questa sede ed è peraltro fatto segno di contestazione che si conclude con
quesito generico ed astratto, neppure pertinente alla censura in quanto prospetta la sussistenza di
onere probatorio a carico della Z. , rimasto irrisolto, cui non è fatto cenno alcuno nel corpo del
motivo.
Col terzo mezzo il ricorrente deduce il vizio di motivazione nella parte in cui la sentenza impugnata
ha confermato la statuita attribuzione del contributo per il mantenimento della minore e della Z. ,
pur in presenza della prova dell’effettiva diminuita sua capacità economica, non tenendo conto: del
concordato preventivo chiesto con ricorso del 2004 dalla società F.lli Pagani di cui era socio e
amministratore; del fatto che egli pagò personalmente debiti sociali e dovette far fronte alle proprie
esposizioni per fideiussioni da lui rilasciate a favore della menzionata società; concluse transazione
del contenzioso instaurato per i danni procurati alla società dal commissario giudiziale in forza della
quale sostenne un esborso di Euro 252.739,00; rimasto privo di reddito godette del sostegno
familiare; percepiva la retribuzione di Euro 3000,00 mensili per la sua qualifica di dirigente della
società Reggiane Crns und Plants s.p.a e null’altro; era solo nudo proprietario per 1/3 di immobile in
XXXXXXX.
Di questo deterioramento della sua condizione economica la Corte del merito non avrebbe tenuto
conto.
La resistente deduce l’infondatezza del motivo.
Il motivo deve essere dichiarato inammissibile. La deduzione del vizio d’insufficiente motivazione su punto essenziale della controversia deve
essere accompagnata, secondo quanto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., dal prescritto momento di
sintesi (omologo del quesito di diritto) contenente la chiara illustrazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume inidonea (Cass. S. U. 20603/2007), che è assolutamente
assente nell’articolazione nonché nella conclusione del motivo esaminato.
Col quarto il ricorrente denuncia violazione dell’art. 148 e dell’art. 155 c.c. in relazione
all’ammontare del contributo di mantenimento per la figlia minore, che risiederebbe nell’asserita
disparità economica tra le sue condizioni e quella della moglie separata, non provata, ma desunta in
via logica presuntiva e tenendo conto per la moglie del solo reddito da lavoro. Il quesito di diritto
chiede se viene rispettato il principio di proporzionalità riguardo al mantenimento dei figli quando
nella comparazione della situazione economica dei genitori si è tenuto conto per l’uno di tutti i
cespiti reddituali e patrimoniali e per l’altro del solo reddito da lavoro.
La controricorrente deduce infondatezza della censura.
La sentenza impugnata in parte qua ha confermato la corretta valutazione comparata condotta dal
primo giudice, che ha fatto propria nel suo risultato alla stregua della documentazione versata in
atti, attestante la disponibilità di cospicuo patrimoniale immobiliare da parte del P. , non intaccata
dal deterioramento della sua posizione patrimoniale, la partecipazione a numerose società e la
titolarità per loro tramite di vasto patrimonio immobiliare. Il tutto dettagliatamente specificato
anche in relazione alle conseguenze della crisi che colpì la società F.lli Pagani ed alle sue ricadute
sulle condizioni dell’odierno ricorrente. Ha rilevato che le condizioni della Z. sono di contro affidate
al solo reddito da lavoro, che percepisce nella misura mensile di Euro 1000,00.
Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte che in seguito alla
separazione la prole ha diritto ad un mantenimento tale da garantirle un tenore di vita
corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo, per quanto possibile, a quello
goduto in precedenza (v. sul punto Cass. 2000 n. 15065; n. 8424/2005). È altresì da considerare che
il dovere di provvedere al mantenimento, istruzione ed educazione, secondo il precetto dell’art. 147
c.c., impone ai genitori, anche in caso di separazione o divorzio, di far fronte a tutte le molteplici
esigenze dei figli, oltre che all’adeguata predisposizione di una stabile organizzazione domestica,
idonea a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione, e va inoltre osservato ai fini di una
corretta determinazione del concorso dei genitori che il parametro di riferimento è costituito,
secondo il disposto dell’art. 148 c.c., dalle rispettive sostanze e dalla capacità di lavoro
professionale, con espressa valorizzazione di risorse economiche e potenzialità reddituali.
A tali principi si è attenuta la sentenza impugnata nel valutare le condizioni patrimoniali e reddituali
delle parti nel senso sopra riferito. In tale complesso argomentativo non si ravvisa pertanto il
denunciato errore.
Il motivo in sostanza ne affida la prospettazione ad argomenti che inducono al riesame delle riferite
circostanze, del cui apprezzamento la decisione impugnata rende conto con puntuale e corretta
motivazione, per l’effetto non ammesso in questa sede, e si conclude con quesito di diritto ancora
una volta astratto e generico in relazione alla presunta violazione di legge riscontrabile con
riferimento alla specie.
Col quinto motivo infine il ricorrente deduce violazione dell’art. 156 c.c. in relazione alla debenza
dell’assegno di mantenimento a favore della moglie separata, stabilito nella misura di Euro 2.000,00
mensili. Il vizio dedotto risiederebbe nel non aver tenuto conto che il tenore di vita goduto in
costanza di matrimonio non ebbe un livello costante e comunque, in ordine al quantum, che la Z.
non solo svolge attività lavorativa retribuita ma è altresì proprietaria del 70% di un’agenzia di
viaggi, sì che le reciproche posizioni patrimoniali reddituali sono de reputarsi equivalenti. Il quesito
di diritto chiede se è dovuto il mantenimento in favore della moglie in presenza della prova della
sua prestazione lavorativa presso agenzia di sua proprietà al 70% e in quanto giovane è munita di
capacità lavorativa, e nell’impossibilità di mantenere il pregresso tenore di vita per l’intervenuto
depauperamento della condizione patrimoniale del coniuge causare dalle vicende rappresentate.
Anche di questo motivo la resistente chiede il rigetto. La sentenza impugnata utilizza (al fine di attribuire e determinare in maniera congrua il contributo per la moglie le valutazioni comparative
effettuate in ordine alla determinazione dell’assegno per la figlia, dunque basandosi su attendibile
ricostruzione delle complessive posizioni reddituali e patrimoniali dei coniugi in modo da fissare
l’erogazione in favore del più debole, giungendo alla conclusione che l’importo dell’assegno, cui la
Z. aveva diritto, determinato dal Tribunale in Euro 1.000,00 mensili fosse adeguato.
Il mezzo in esame richiama sommariamente i passaggi argomentativi sui fatti considerati e ne
smentisce il valore probatorio attribuendovi senso opposto a quello ritenuto dalla Corte del merito,
la cui statuizione tiene conto delle vicende che hanno determinato il deterioramento della posizione
economica e patrimoniale asserita dal ricorrente rispetto al tempo della convivenza matrimoniale e
dunque al relativo tenore di vita della coppia, e assunti a base gli elementi comparativi acquisiti al
bagaglio istruttorio, ha provveduto facendo corretta applicazione del dettato normativo.
Il motivo induce all’evidenza alla rivisitazione di quelle circostanze ed è perciò inammissibile.
Tutto ciò premesso il ricorso principale deve essere rigettato.
Analoga pronuncia va adottata in relazione al ricorso incidentale che riproduce le censure esposte
nel primo motivo del ricorso incidentale.
I ricorrenti in solido vengono condannati al pagamento delle spese in favore della resistente
liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta, condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione liquidandole in complessivi Euro 5.000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi ed
accessori di legge. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento devesi omettere le
generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in
quanto imposto dalla legge.