E’ escluso dalla comunione legale dei coniugi l’appartamento acquistato dal coniuge, frutto di donazione indiretta del suo genitore in quanto l’art. 809 c.c., nel prevedere le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità, non richiama l’art. 782 c.c. che contempla l’atto pubblico per la donazione. Quindi, per la donazione indiretta non è richiesta la forma prevista dalla legge per la donazione essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità. Nel caso in esame, il trasferimento della proprietà era stato effettuato tramite compravendita e tale atto pacificamente presenta il requisito formale di cui all’art. 1350 c.c. (atti che devono farsi per iscritto). Pertanto la donazione indiretta è rientrata nella previsione dell’art. 179, lett. b), c.c. (beni personali).
Corte di Cassazione 5 giugno 2013 n. 14197
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Perugia, rigettando il gravame della sig.ra …. , ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Orvieto, in accoglimento della domanda del marito della predetta, sig. …. , aveva dichiarato escluso dalla comunione legale dei coniugi l’appartamento acquistato dal marito con rogito del 2 luglio 1998, in quanto frutto di donazione indiretta da parte del padre di lui. In particolare, per quanto qui rileva, la Corte: – – ha ritenuto, in diritto, che l’ipotesi di esclusione della comunione prevista dalla lett. b) dell’art. 179, primo comma, c.c. ricomprenda anche la donazione indiretta e che non sia in tal caso necessaria la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto ai sensi del secondo comma del medesimo articolo;
– ha ritenuto altresì, in fatto, che la circostanza che l’acquisto era avvenuto con danaro messo a disposizione dell’attore da suo padre era provata dalle testimonianze di quest’ultimo e della figlia, sorella dell’attore, nonché confermata dal prelievo in banca, sempre da parte del predetto genitore, il giorno stesso del rogito di acquisto, di L. 150.000.000 – somma di poco superiore al prezzo dell’immobile di L. 130.000.000 – nonché dalla successiva emissione, da parte del medesimo, di un assegno di L. 8.200.000, esattamente corrispondente alle spese notarili; – ha negato la necessità della prova scritta della dazione del danaro da parte del donante e del collegamento funzionale di essa all’acquisto del bene donato, osservando che oggetto di prova non è un contratto, bensì un comportamento ed il suo fine, per cui è inconferente il richiamo all’art. 1350 c.c., che disciplina la forma dei contratti.
La sig.ra … ha proposto ricorso per cassazione articolando quattro motivi di censura.
Il sig. … si è difeso con controricorso e memoria.
Motivi della decisione
1) – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 1350, 2725 e 2729 c.c., si censura la negazione della necessità della prova scritta dell’attribuzione patrimoniale del padre in favore del figlio mediante il pagamento del prezzo dell’immobile con lo scopo di donarlo al medesimo, che lo aveva accettato o quantomeno non rifiutato. Si osserva che tale atto ha natura negoziale costituendo il negozio-fine della donazione indiretta, dunque è soggetto alla disciplina codicistica dettata per i contratti e, in particolare, alle norme sopra richiamate sulla forma scritta (dei contratti con cui sia trasferita la proprietà di un immobile).
1.1) – Il motivo è infondato. Il trasferimento della proprietà dell’immobile è stato operato dall’atto di compravendita stipulato tra venditore e compratore/donatario, e tale atto pacificamente presentava il requisito formale di cui all’art. 1350 c.c.. Né per la donazione indiretta è richiesta la forma prevista dalla legge per la donazione, essendo sufficiente l’osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità, dato che l’art. 809 c.c., nel prevedere le norme sulle donazioni applicabili agli altri atti di liberalità realizzati con negozi diversi da quelli previsti dall’art. 769 c.c., non richiama l’art. 782 c.c., che prescrive l’atto pubblico per la donazione (ex multis, Cass. 1446/1985, 4623/2001, 5333/2004, 1955/2007). Il fine di liberalità e la sua realizzazione da parte del donante mediante il pagamento del prezzo dell’acquisto fatto dal donatario ben potevano, dunque, essere provati per testimoni o presunzioni.
2) – Con il secondo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, si sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, ai fini della sottrazione dell’acquisto per donazione indiretta alla comunione è necessaria l’espressa dichiarazione del coniuge acquirente ai sensi dell’art. 179, primo comma lett. f), c.c., nonché la partecipazione del coniuge non acquirente all’atto di acquisto e la sua adesione alla predetta dichiarazione del coniuge acquirente, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo. L’interpretazione estensiva delle richiamate disposizioni alla donazione indiretta si imporrebbe, secondo la ricorrente, agli stessi fini di certezza e di tutela dei terzi sottesi alle fattispecie ivi espressamente previste, in considerazione dell’analogo carattere “occulto” dell’acquisto in capo al solo coniuge contraente nella donazione indiretta, che esteriormente non si configura come atto di liberalità.
2.1) – Il motivo è infondato. Il Collegio ritiene infatti di dare continuità all’indirizzo già espresso da questa Corte, secondo il quale la donazione indiretta rientra nella previsione di cui alla lett. b) del primo comma dell’art. 179 c.c., onde non trova applicazione, per precisa scelta legislativa, la disposizione di cui alla lett. f) del medesimo comma, né quella di cui al secondo comma, che alla lett. b) non fa riferimento (Cass. 11327/1997, 4680/1998, 15778/2000), considerato anche che non è detto che i criteri dettati dall’art. 179 c.c. per la qualificazione dei beni come personali offrano sempre assoluta certezza (Cass. 4680/1998, cit., in motivaz.).
3) – Con il terzo motivo, denunciando violazione degli artt. 345 e 356 c.p.c. e nullità della sentenza, si lamenta che la Corte d’appello abbia deciso utilizzando una prova testimoniale già dichiarata inammissibile dal giudice di primo grado, con statuizione non impugnata in appello, e comunque senza che la Corte stessa ne avesse disposto l’ammissione. Si tratta della prova articolata dall’attore nella parte in cui si chiedeva al padre se, con il conferimento al figlio della somma necessaria al pagamento del prezzo, avesse voluto arricchire lo stesso dell’immobile per spirito di liberalità: prova dichiarata inammissibile dal Tribunale in quanto relativa a un fatto non provabile per testi, rappresentato – si legge nel ricorso – “dal trasferimento immobiliare in capo al figlio anziché alla comunione e che lo stesso Tribunale, con questo provvedimento, riconduce espressamente alla necessità di una prova scritta”.
3.1) – Il motivo è inammissibile. Il Tribunale aveva accolto la domanda dell’attore avendo accertato, grazie proprio alla testimonianza di suo padre (e ad altre prove), che era stato quest’ultimo a fornire il danaro occorrente per l’acquisto dell’immobile. Questo stesso fatto la Corte d’appello ha correttamente posto a fondamento della propria decisione. Il fatto indicato dalla ricorrente – non meglio identificabile se non in base alle sue stesse parole, non essendo riportato in ricorso il relativo capitolo di prova – e cioè il “trasferimento immobiliare in capo al figlio anziché alla comunione”, non è un fatto, bensì un effetto giuridico scaturente dai fatti accertati; dunque è del tutto fuori luogo porre, con riferimento ad esso, questioni di prova (le prova dovendo riguardare, piuttosto, i fatti produttivi di quell’effetto).
4) – Il quarto motivo di ricorso, con cui si deduce vizio di motivazione ai sensi del n. 5 dell’art. 360 c.p.c., è inammissibile perché manca del momento di sintesi della censura necessario ai sensi dell’art. 366 bis, secondo comma, c.p.c. (per tutte, Cass. Sez. Un. 20603/2007), ancora vigente alla data della pubblicazione della sentenza impugnata, anteriore a quella dell’entrata in vigore della 1. 18 giugno 2009, n. 69, che ha abrogato la predetta norma.
5). – Il ricorso va in conclusione respinto, con condanna della ricorrente alle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese processuali, liquidate in € 4.200,00, di cui € 4.000,00 per compensi di avvocato, oltre accessori di legge.