La sezione tributaria della Corte di cassazione ha stabilito, con l’ordinanza 7897 del 28 marzo, che non è ammessa la deduzione dell’imposta in materia di redditi per i lavori edili fatti eseguire da terzi se manca il contratto di appalto.
Il fatto
La Commissione tributaria provinciale rigettava l’opposizione di una società a un avviso di accertamento con il quale l’ente impositore recuperava a tassazione costi non riconosciuti per Irpeg e Ilor, il cui appello venne invece accolto dalla Commissione tributaria regionale.
Il giudice del riesame osservava che i costi relativi alla costruzione di un capannone erano deducibili, anche se la contribuente non aveva stipulato un contratto scritto con la società appaltatrice, in quanto nessuna norma ne imponeva la forma solenne e che le fatture rinvenute in sede di verifica dovevano ritenersi regolari e sufficienti ai fini probatori circa la competenza e inerenza dei costi sopportati, ancorché la contabilità presentasse alcune irregolarità.L’ente impositore si oppone alla decisione di appello con ricorso per cassazione, con il quale deduce, in primo luogo, vizi di motivazione poiché la Commissione regionale non ha sufficientemente esplicitato le ragioni per le quali ha ritenuto che il contratto di appalto de quo non dovesse risultare in forma scritta, essendo sufficienti le fatture contenenti gli elementi identificativi del rapporto, munite di tutti i requisiti previsti dalla normativa fiscale, nonostante che si fosse trattato di un rilevante compenso pattuito tra le parti.
Ad avviso del ricorrente, ne conseguiva anche l’inidoneità delle fatture a comprovare da sole l’effettività delle operazioni e la conseguente detrazione, oltre che la competenza e inerenza dei costi sostenuti.

La decisione
Decidendo la vertenza, la Corte di cassazione accoglie il ricorso dell’Amministrazione per il fatto che il costo dell’appalto non può essere detratto sulla base delle sole fatture di acquisto, essendo necessario un contratto scritto fra committente e appaltatore.
A tal fine, la Corte motiva che – in effetti – il giudice di secondo grado, nel ritenere in modo generico che le fatture ricevute costituissero prova della deduzione operata dalla contribuente e che fossero munite di tutti i requisiti previsti per la loro efficacia, non ha espresso nella sentenza una motivazione sufficiente e congrua ma “prettamente” apparente (Cassazione, sentenze 1944/2001, 7233/2003, 21808/2004 e 25138/2005). Il giudice doveva, semmai, specificarne più dettagliatamente i dati, atteso peraltro che si trattava di un contratto di rilevante consistenza (383.854.734 lire).

Infatti, esplicita il Collegio di legittimità, in questo caso, secondo l’id quod plerumque accidit, l’appalto doveva essere stipulato in forma solenne, atteso che la massima di esperienza per cui un contratto di appalto di importo considerevole deve essere stipulato per atto scritto o comunque in maniera da lasciare una traccia documentale non costituisce una presunzione illegittima e giustifica il recupero dell’imposta detratta a fronte di tale contratto, ove la parte interessata non offra alla valutazione del giudice argomenti persuasivi per ritenere che nella specie la stipulazione di un contratto scritto non fosse necessaria (Cassazione, sentenza 4046/2006).

Ciò vuol dire che, nonostante l’articolo 1655 del codice civile non richieda che il contratto di appalto sia redatto in forma scritta, “tuttavia il contribuente che intende beneficiare delle agevolazioni …, ha l’onere di fornire all’Amministrazione finanziaria la prova concreta dell’esistenza di un rapporto di appalto” (risoluzione 502655/1976), soprattutto laddove, come nella specie, trattasi di rapporto negoziale di importo considerevole.
Questo, rileva ancora la Corte, non risulta essere avvenuto nella fattispecie in esame, per cui appare legittimo concludere che quel contratto non fosse stato mai stipulato.

Essendo quindi mancata la prova (ex articolo 2697 cc) dell’effettiva stipulazione dell’appalto, ne segue – secondo il giudice di legittimità – che la contribuente non aveva diritto alla deduzione dell’imposta, ai sensi dell’articolo 75 Dpr 917/1986 vigente ratione temporis (oggi articolo 109 Tuir).

In più, la Cassazione ribadisce il principio generale per cui è il contribuente a dover fornire la prova dell’autenticità delle fatture.
Sul punto l’ordinanza ribadisce il principio generale in base a cui, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture relative a operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente stesso, tenuto a contrastare concretamente la pretesa dell’ufficio mediante l’esibizione dei documenti contabili legittimanti (Cassazione, sentenze 13662/2001, 15228/2001 e 11203/2007). A tale riguardo, non è sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili (Cassazione, sentenze 12802/2011 e 2847/2008).
Ne consegue conclusivamente che, quando la parte privata non è in grado di dimostrare la fonte che giustifica la detrazione, questa deve ritenersi indebita e legittimamente l’ufficio provvede a recuperare a tassazione l’imposta irritualmente detratta (Cassazione 7144/2007).

Fonte: fiscooggi

 

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