La necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale.

Il rilievo secondo cui in materia psicologica, anche a causa della variabilità dei casi e della natura induttiva delle ipotesi diagnostiche, il processo di validazione delle teorie, in senso popperiano, può non risultare agevole, non deve indurre a una rassegnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici.

Non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudentemente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare

Quindi, una CTU che si fondi sulla PAS quale malattia costituisce una “devianza” dalla scienza medica ufficiale e, come tale, non può costituire oggetto per l’adozione di un provvedimento giurisdizionale

 

Cassazione, Sentenza 20 marzo 2013, n. 7041

Svolgimento del processo

1. – I coniugi O.G. e M.D., dalla cui unione, era nato, in data l6 aprile 2002, il figlio L.E., a seguito di una crisi insorta dopo pochi anni di convivenza, si separavano consensualmente nel febbraio, del 2005. Nell’ambito degli accordi omologati dal Tribunale di Padova era stabilito l’affidamento in, via esclusiva

del minore alla madre, con una rego1amentazione dei rapporti del piccolo L. con il padre che prevedeva una loro progressiva intensificazione in relazione alla crescita del bambino.

I rapporti tra il minore e il genitore non affidata­rio si rivelavano presto soggetti, ad, ingravescente involuzione, tanto, che il D., attribuendone la causa alla condotta della moglie, adiva il Tribu­nale per i minorenni di Venezia che, nel contraddit­torio fra le parti (la G., nel costituirsi, a aveva riconosciuto che il figlio si rifiutava catego­ricamente di incontrare il padre, escludendo, tutta­via, una propria responsabilità a tale riguardo), all’esito dell’espletamento della disposta consulenza tecnica d’ufficio, con decreto del 2 ottobre 2009 pronunciava la decadenza dalla potestà genitoriale della madre sul minore, che veniva affidato al servi­zio sociale del Comune di Cittadella, pur rimanendo collocato, presso la stessa G., ivi residente.

1.1 – In data 6 luglio 2010 il D. presentava ricorso al Tribunale per i minorenni di Venezia, chiedendo l’allontanamento del figlio dalla famiglia materna, con collocamento presso di sé, ovvero presso propri congiunti o i servizi sociali, diversi da quelli già individuati, rivelatisi inadeguati, e co­munque l’dozione di provvedimenti idonei a favorire il ripristino dei rapporti del figlio con esso padre con i parenti paterni.

La G., costituitasi, pur avanzando istanza dì provvedimenti intesi a favorire il rapporto del mino­re con il padre, chiedeva il rigetto delle richieste del coniuge, nonché, di essere reintegrata nella pote­stà genitoriale.

1.2 – Con decreto del 10 dicembre 2010 il Tribunale adito rigettava tanto la domanda di modifica del col­locamento dei minore, tanto quella – avanzata dalla G. – di revoca della dichiarazione, della deca­denza dalla potestà, disponeva che L. fosse affídato al Servizio sociale del Comune di Padova, cui demandava, anche in collaborazione con altre istituzioni, di vigilare e sostenere il percorso di riavviciramento del minore al padre, da attuarsi mediante il già disposto sostegno specialistico sia per il fi­glio che per ciascun genitore.

1.3 – Avverso tale provvedimento il D. e la G. provonevano reclamo ai sensi dell’art. 739 c.p.c.

Il primo deduceva che, poiché la permanenza del fi­glio presso la famiglia materna camportava un ina­sprimento della situazione patologica, già diagnosti­cata in precedenza dal consulente tecnico d’ufficio, e definita come “sindrome da alienazione parentale” il bambino doveva essere collocato in un ambiente di­verso e maggiormente idoneo a favorire il riavvicinamento alla figura paterna.

La G., in via incidentale, insisteva per la reintegra nella potestà genitoriale, chiedendo il ri­getto delle richieste del marito, specificando che il riavvicinamento fra il bambino e il padre dovesse re­alizzarsi attraverso il supporto psicoterapeutico e un’opportuna regolamentazione dei loro incontri.

1.4. – La Corte dí appello di Venezia, disposta consu­lenza tecnica d’ufficìo, affidata allo psichiatra già nominato in precedenza, acquisite le relazioni dei servizi che davano conto degli sviluppi della situazione, prendeva atto che il miglioramento dell’atteggiamento dei figlio nei confronti del padre era meramente effimero, vale a dire riscontrabile solo in concomitanza di accertamenti nell’ambito di, procedure in cui si profilava il pericolo di una de­cisione sfavorevole per la madre. Constatava quindi che, nonostante fossero state rispettate le prescri­zioni tra i percorsi terapeutici già stabiliti, l’equilibrio psicofisico del minore risultava minato ed esposto a grave pericolo in relazione alla condi­zione patogenetica in cui versava, determinata da un forte conflitto di fedeltà nei confronti della madre. Veniva evidenziato come la mancata identificazione della figura paterna, e, soprattutto, l’immotivato e comunque ingiustificato rifiuto di rapporti con il padre fossero da attribuirsi a un’evidente alleanza collusiva tra la madre e L. e che, ad onta del­la già dichiarata, decadenza dalla potestà genitoria­le, la G. avesse mantenuto un potere assoluto sul figlio, che non risultava in alcun modo utilizza­to per rivalutare la figura paterna e per favorire la ricostruzione di un rapporto con il padre evidente mente, ritenuto “inutile e dannoso”.

Si riteneva, pertanto, che soltanto una diversa col­locazione del minore potesse scongiurare l’ormai qua­si cristallizzato rifiuto e odio dello stesso verso la figura paterna, e si rilevava altresì come 1’ eta ormai adolescenzíale di L. da un lato accre­scesse il pericolo di uno sviluppo alterato irreversibilmente dalla situazione patogenetica sopra indi­cata; dall’altro consentisse, senza gravi traumi, una collocazione in un ambiente scolastico/educativo, do­tato della necessaria specializzazione ed equidistan­te dai genitori.

1.5 – Si disponeva quindi, riservando ogni decisione, sulle domande proposte con il ricorso incidentale all’esito della verifica, dopo un anno, della nuova regolamentazione, che il minore fosse affidato al pa­dre ed inserito in una struttura residenziale educa­tiva, prescrivendo la programmazione di incontri con entrambi í genitori, sulla base di uno specifico e dettagliato programma psicoterapeutico. Per la cassazione di tale provvedimento la G. ­propone ricorso, affidato a due motivi, illustrati da memoria.

Resiste con controricorso, parimenti illustrato da memoria, il D.

 

Motivi della decisione

 

2 – Deve in primo luogo esaminarsi l’eccezione di i­nammissibilita del ricorso, sollevata nel controri­corso e fondata sull’assenza del carattere di decisorietà del provvedimento impugnato, inteso a discipinare in maniera temporanea e non definitiva gli aspetti relativi al collocamento del minore e ai suoi rapporti con entrambi i genitori.

2.1 – Viene, in particolare, invocato il principio, ribadito anche di recente da questa Corte, secondo cui i provvedimenti emessi dal Tribunale per i mino­renni, in sede di volontaria giurisdizione, che limi­tino escludano la potestà dei genitori naturali ai sensi dell’art. 317-bis c.c., che pronuncino la decadenza dalla potestà sui figli o la reintegrazione, in essa, ai sensi degli artt. 330 e 332 c.c., che dettino disposizioni per ovviare ad una condotta dei geni­tori pregiudizievole ai figli, ai sensi dell’art. 333 c.c., o che dispongano l’affidamento contemplato dall’art. 4, secondo comma, della legge n. 184/83, in quanto privi dei caratteri della decisorieta e defi­nitività in senso sostanziale, non sono impugnabili con il ricorso straordinario per cassazione di cui all’art. 111, settimo comma, Cost. (Cass., 31 maggio 2012, n. 8778).

2.2. – In realtà, ai fini della verifica dell’ammissibilità o meno di un mezzo di impugnazione non si può prescindere, in ottemperanza alla regola della prevalenza della sostanza sulla forma (Cass., 12 novembre 2007, n. 23495; Cass., 27 luglio 2006, n. 17098; Cass., Sez. un., 29 dicembre 2004, n. 24071), dal suo contenuto.

Nel caso in esame, a distanza di anni dal provvedi­mento, ormai definitivo, con cui era stata dichiarata la decadenza dalla potestà genitoriale della madre, con affidamento, del minore, ancora collocato presso di lei, ai servizi sociali del Comune di Cittadella, il padre aveva nuovamente adito l’autorità giudizio­ria, e, adducendo un inasprimento della condotta del­la G., precipuamente finalizzata a ispirare nel figlio una irriducibile avversione nei propri con­fronti, aveva chiesto che il piccolo L. fosse a lui affidato, con le istanze subordinate sopra richiamate.

2.3 – Trattasi all’evidenza di una domanda intesa ad ottenere una revisione della regolamentazione del re­gime di affidamento nell’ambito della separazione dei coniugi, del tutto svincolata dagli aspetti inerenti, all’applicazione della disciplina dettata dagli art. 330 e segg. cod. civ. e riservata, per altro, alla cognizione del tribunale ordinario. A tale riguardo, pur risultando la relativa questione, mai sollevata in precedenza, ormai definitivamente preclusa, deve constatarsi che il giudice del merito si è sottrat­to alla necessaria verifica ìn ossequio al principio del giudice naturale, circa la propria competenza.

Viene invero in considerazione.1’ontologica difformità dei provvedimenti de potestate (quali quelli richiamati nel controricorso) da quelli assuntí in sede di, revisione delle precedenti condizioni in materia di affidamento dei figli minori, siano essi legittimi o naturali, per i quali, è sicuramente ammesso il ricorso per cassazione (anche per vizio di motivazione, dopo la modifica dell’ art. 360, u.c., c.p.c.; introdotta dall’art. 2 del d.lgs. n. 40 del 2006), in quanto tesi a risolvere un conflitto che prescinde dalla titolarità della potestà genitoriale (cfr. Cass., 13 settembre 2012, n. 15341, in moti­vaz.; Cass., Sez. Un., 21 ottobre 2009, n. 22238;­ Cass. 21 dicembre 2007, n. 27082; Cass., 28 agosto 2006, n. 18627).

Il ricorso è quindi ammissibile.

3 – Con il primo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in merito a un fatto decisivo e controverso per il giudizio, sotto i seguenti pro­fili: la Corte territoriale, pur recependo integralmente le conclusioni cui era pervenuto il consulente tecnico d’ufficio, fondate sull’accertamento diagno­stico, nei confronti del minore, della “sindrome da alienazione parentale” (PAS), non ha esaminato le censure, specificamente proposte, sia in relazione alla validità, sul piano scientifico, di tale contro­versa patologia, sia in merito alla sua reale riscon­trabilità nel minore e in sua madre.

3.1 – Con il secondo mezzo si denuncia violazione di legge ed omessa motivazione in merito a un fatto con­troverso e decisivo per il giudizio, consistente nel­la mancata verifica dell’attendibilità scientifica della teoria posta alla base della diagnosi di “sin­drome da alienazione parentale”.

4 – Entrambi i motivi, che possono essere congiunta­menta esaminati, in quanto intimamente connessi, sono fondati.

4.1 – Deve preliminarmente constatarsi come nella rno­tivazione della sentenza impugnata la Corte territoriale, che pure cita testualmente numerosi brani della consulenza tecnica d’ufficio, alla quale, a un­ certo punto, opera un richiamo nella sua integralità (pag. 4), eviti, accuratamente ogni riferimento alla “sindrome da alienazione parentale” (d’ora in avanti, per brevità, PAS), che pure costituisce il sostrato teorico, utilizzato a fini diagnostici e terapeutici, dell’ elaborato peritale.

Che si tratti di un mero 1apsus memoriae o di un espediente dialettico per eludere la questione della validità scientifica della PAS e le critiche alla consulenza tecnica d’ufficio, questa Corte non è in grado di stabilire di certo, il tema della condizione patologica del minore, unicamente riferíbile alla condotta della madre “alienante”, rappresenta l’ubi consistam non solo del citato elaborato, ma dell’intero gìudizio dì secondo grado.

Tale lacuna, per altro, e meramente apparente, doven­dosi applicare il principio in base al quale la moti­vazione della sentenza “per relationem” e ammissibi­le, dovendosi giudicare la sua completezza e logicità sulla base degli elementi contenuti nell’atto al qua­le si opera il rinvio e che, proprio in ragione dello stesso, diviene parte integrante dell’atto rinviante, fermo restando, tuttavia, secondo un principio gene­rale dell’ordinamento, desumibile dagli art. 3 l. n. 241 del 1990, e 7, comma 1, l. n. 212 del 2000, per gli atti amministrativi (e valido, a maggior ragione, in forza dell’art. 111 Cost., per l’attività del giu­dice), che il rinvio va operato in modo tale da ren­dere. possibile ed agevole il controllo della motivazione “per relationem” (Cfr. Cass., 29 maggio 2002, n. 13937; Cass., 8 luglio 2005, n. 14390; Cass., 16 gennaio 2009, n. 979; Cass., 11 febbraio 2011, n. 3367, e, con riferimento ala consulenza tecnica d’ufficio, Cass., 4 maggio 2009, n. 10222).

4.2. – Dalla lettura della relazione, depositata dal medico psichiatra al quale la Corte di appello aveva affidato il compito di accertare “le condizioni psi­cofisiche attuali del minore, per verificare se la prosecuzione delle condizioni di vita e delle modali­tà dei rapporti parentali in essere possa compromet­tere ulteriormente la sua salute e quale sarebbe, sotto lo stesso profilo, l’eventuale pregiudizio che gli conseguirebbe dall’inserimento in diverso ambien­te, endo-familiare o comunitario/educativo (che il genitore non decaduto dalla potestà può ricercare – fra quelli più adeguati alle necessità educative e allo stile di vita che intende assicurare al figlio – e proporre ai CTU, per opportuna valutazione) con in­dicazione delle più opportune modalità di attuazio­ne”, emerge una chiara conferma della diagnosi di PAS (già in precedenza formulata, del resto, dallo stesso consulente).

Nell’elaborato in questione si legge, infatti, che “L., seppure invischiato nel cosiddetto con­flitto dì fedeltà, pilastro portante di PAS, ha la­sciato presagire, imminente e possibile, la ripresa della frequentazione dell’ambiente paterno, secondo schema comportamentale connotato da coazione a ripe­tere, condizione che se da, un lato permetterà il su­peramento del rifiuto e della situazione ostativa, dall’altro non garantirà in termini certi ed irrever­sibili lo scioglimento di quel legame patogeno esi­stente tra madre e figlio, legame alla base del rile­vato conflitto di fedeltà, che sul piano tecnico urge risolvere”.

Illustrato il pericolo dello sviluppo, in età post­adolescenziale, di un quadro patologico attinente a grave “Disturbo di Personalità, o a Disturbo Disso­ciativo di tipo disaffettivo, ovvero a Psiconevrosi Depreessiva”, si conclude nei seguenti termini: L’attento certamento commissionato dalla Corte di appello di Venezia, Sezione per ì Minorenni porta, i­nequivocabilmente a confermare, nella vicenda in at­tenzíone di causa, la sussistenza di PAS, disfunzione ad intensa connotazione psicopatologica, che deve es­sere al più presto delimitata e interrotta al fine di tutelare il processo evolutivo del minore in atten­zione, oggi già compromesso e prodromico, sic stanti­bus rebus, difuturo sviluppo psicopatologico”.

4.3 – Il decreto in esame, richiamando le valutazioni­ del consulente tecnico d’ufficio, e ritenendo che non si tratti di “assecondare, le propensioni affettive (o meglio distruttive) del minore, già unilateralmente indirízzate”, bensì di “individuare le condizioni più rispondenti al suo preminente interesse all’accesso alle figure genitoriali di riferimento”, afferma, ci­tando la consulenza tecnica d’ufficio, che il mante­nimento dell’attuale collocamento di L. “non garantirà in termini certi ed irreversibili lo scio­glimento di quel legame patogeno esistente tra madre e figlio, legame alla base dei rilevato conflitto di fedeltà che sul piano tecnico urge risolvere”. Ben si vede come il provvedimento adottato assume proprio nell’ottica della teoria incentrata sulla PAS, una valenza clinica e giuridica assieme, nel senso che l’interesse del minore viene perseguito, al di là dei principi della bigenitorialità e della ne­cessità dell’ascolto del minore (inteso non solo come mero recepimento delle sue istanze, anche affettive, ma come necessità di motivare adeguatamente provvedimenti adottati in difformità alle sue esternazioni), attraverso una serie di misure intese a prevenire, in funzione terapeutica, l’aggravamento di una patologia in atto.

Di certo non può ritenersi, in contrasto con la motivazione del provvedimento impugnato (la quale, come già evidenziato, pur non utilizzando la terminologia adottata nella consulenza, ad essa rinvia espressamente ed integralmente, facendola propria), che la decisione di sottrarre un bambino àll’ambiente mater­no, con il quale il rapporto – indipendentemente dal­la ritenuta condotta “alienante” – non presenta altre controindicazioni, per collocarlo, non potendo stabi­lire un immediato inserimento nell’ambiente familiare paterno, a causa della forte avversione manifestata al riguardo dal minore, in una struttura educativa, possa attribuirsi a una valutazione che prescinda dalle suindicate – ancorché innominate — esigenze terapeutiche. Ciò vale a dire che né il tenore del provve­dimento, né la sequenza degli atti procedirnentali an­tecedenti, autorizzano soltanto a ipotizzare che la consulenza sia stata utilizzata, soltanto nella parte “percipiente”, come tale dotata di una indiscutibile valenza oggettiva (Cass., 13 marzo 2009, n. 6155) Sotto tale profilo va sottolineato che a un certo punto, richiamandosi, le osservazioni del consulente, si afferma che “allorché la signora è stata posta nella condizioni di collaborare proficuamente ed ha, con sufficiente convincimento personale, aderito al progetto comune proposto dal CTU, i mutamenti compor­tamentali di L., come già avvenuto nel corso della prima CTU, hanno assunto, caratteri meno oppositivi nel processo di riavvicinamento al padre”, pre­cisandosi che nella prima relazione, si evidenziava che “a fronte della possibile involuzione svantaggio­sa per la madre, L. riprese, quasi d’incanto e con la massima naturalezza, a frequentare il padre, ma lo fece per un tempo irrisorio e risibile, finché non fu scongiurato lo scampato pericolo”.

Tale costatazione di una dato fattuale, per il vero non priva di intrinseci aspetti valutativi, appare per certi versi, ancorché ancorata ad aspetti di natura oggettiva, distonica rispetto alla complessiva diagnosi di PAS, in quanto non è dato comprendere come una vera e propria patologia psichica, indotta da elementi che evidentemente sfuggono – obbedendo a meccanismi interiori e profondi – a qualsiasi consa­pevolezza, soprattutto da parte di un bambino, possa essere compatibile con la descritta mutevolezza di comportamento verso il genitore “alienato”, evidente­mente frutto come si sostiene in maniera abbastanza esplicita – di suggerimenti, induzioni o suggestioni, provenienti da situazioni di carattere esterno e coingente.

5. – Deve quindi ritenersi che, come si afferma nel, ricorso, il provvedimento impugnato sia, intimamente correlato alla diagnosi di PAS formulata dal consu­lente tecnico d’ufficio, e che, essendo la statuizio­ne adottata dalla Corte di appello rispondente a pre­tese esigenze terapeutiche, la sua validità, sotto il profilo non della scelta di merito, bensì del percor­so motivazionale che la sorregge, dipenda esclusiva­mente da quella della valutazione clinica, posto che da una diagnosi in versi errata non può derivare una terapia corretta.

5.1. – Passando all’esame delle censure dedotte, deve rilevarsi che la loro fondatezza discende dall’intreccio di due principi, parimenti disattesi, costantemente affermati da questa Corte in presenza di elaborati peritali che, interamente recepiti dal giudice del merito, siano stati sottoposti a specifi­che censure, soprattutto quando, come nel caso in e­same, venga in considerazione una teoria non ancora consolidata sul piano scientificco, ed anzi, come si vedrà, molto controversa.

5.2. — Deve invero evidenziarsi che la ricorrente, nel pieno rispetto del principio di autosufficienza, ha richiamato le critiche mosse alla relazione deposita­ta dal consulente, tecnico d’ufficio, alla diagnosi dallo stesso formulata e, soprattutto, alla validità, sul piano scientifico, della PAS.

Basterà qui ricordare che, sono state richiamate le perplessità del mondo accademico internazionale, al punto che il Manuale diagnostico e statistico dei di­sturbi mentali (DSM) non la riconosce come sindrome a malattia; che si è evidenziato che vari autori spa­gnoli, all’esito di una ricerca compiuta nel 2008, hanno sottolineato la mancanza di rigore scientifico del concetto di PAS e che, nel 2009, le psicologhe C.B. e S.V., la prima spagnola e la seconda argentina, hanno sostenuto, in una pubbli­cazione dei 2009, che la PAS sarebbe un “costrutto pseucto scientifica”. Nell’anno 2010, inoltre, la Asso­ciacion Espanola de Neuropsiquiatria ha posto in evi­denza i rischi dell’applicazione, in ambito forense, della PAS, non diversamente da quanto già manifestato nei 2003, in USA, dalla National District Attorneys Association, che in nota informativa sosteneva 1’assenza di fondamento della teoria, “in grado di minacciare l’integrità del sistema penale e la sicu­rezza dei bambini vittima di abusi”. Sono stati altresì richiamati i rilievi in base ai quali, anche volendo accedere alla validità scienti­fica della PAS, molti dei suoi caratteri, come defi­niti dal suo sostenitore principale, Richard Gardner (nei cui confronti non sono mancati accenni poco lu­singhieri, quale l’essersi presentato quale Professo­re dì psichiatria infantile presso, la Columbia University, essendo un mero “volontario non retribuito”, e persino l’aver giustificato la pedofilia), non sarebbero riscontrabili nel caso di specie.

6. le esposte critiche non sono state esaminate nel provvedimento impugnato, così violandosi il principio secondo cui il giudice del merito non è tenuto ad esporre in modo puntuale le ragioni della propria ade­sione alle conclusioni del consulente tecnico d’uffi­cio, potendo limitarsi ad un mero richiamo di esse, soltanto nel caso in cui non siano mosse alla consu­lenza precise censure, alle quali, pertanto, è tenuto a rispondere per non incorrere nel vizio di motiva­zione (Cass., 6 settembre 2007, n. 18688; Cass. l° marzo 2007, n. 4797, Cass., 13 dicembre 2006, n. 28694).

Tale vizio è correttamente denunciato – come nel caso di specie – in sede di legittimità, attraverso una indicazione specifica delle censure non esaminate dal medesimo giudice (e non già tramite una critica di rette della consulenza stessa), censure che, a loro volta, devono essere integralmente trascritte nel ri­corso per cassazione al fine di consentire, su di es­se, la valutazione di decisività (Cass., 28 marzo 2006, n. 7078).

6.1. L’altro principio, parimenti disatteso e non meno importante, riguarda la necessità che il giudice del merito, ricorrendo alle proprie cognizioni scientifiche (Cass., 14759 del 2007; Cass., 18 novembre 1997, n. 11440), ovvero avvalendosi di idonei esperti, verifichi il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale (Cass., 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass., 25 agosto 2005, n. 17324).

Il rilevo secondo cui in materia psicologica, anche a causa della variabilità dei casi e della natura induttiva delle ipotesi diagnostiche, il processo di validazione delle teorie, in senso popperiano, può non risultare agevole, non deve indurre a una rasse­gnata rinuncia, potendosi ben ricorrere alla comparazione statistica dei casi clinici.

Di certo non può ritenersi che, soprattutto in ambito giudiziario, possano adottarsi delle soluzioni prive del necessario conforto scientifico, come tali poten­zialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che le teorie ad esse sottese, non prudente­mente e rigorosamente verificate, pretendono di scongiurare.

7. Per le ragioni indicate il ricorso deve essere accolto e il decreto impugnato va cassato. Il giudice del rinvio, che si individua nella Corte di appello di Brescia, esaminerà il reclamo senza incorrere nell’evidenziato vizio motivazionale, provvedendo, altresì, alla liquidazione delle spese relative al presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa il decreto impu­gnato e rinvia, anche per le spese, alla Corte di ap­pello di Brescia.

Sì dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento vengano omesse le generalità e gli al­tri dati identificativi, ai sensi dell’art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003.

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