Il breve matrimonio e la mancata creazione di un nucleo familiare autonomo e distinto dalla famiglia di origine della donna, sempre presente nella vita della coppia, hanno di fatto esautorato il coniuge dal suo ruolo di marito e padre, al quale pertanto non può essere addebitata la separazione per violazione del dovere di assistenza morale e materiale nei confronti della moglie e dei figli.
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Corte d’Appello di Roma – Sentenza 27 giugno – 11 ottobre 2012, n. 4983
nel procedimento R.G. degli Affari Civili Contenziosi 4084 del 2010 promosso con ricorso in appello avverso la sentenza n. 868 del Tribunale di Roma emessa in data 12 giugno 2009 e depositata il 15 gennaio 2010 vertente tra
P.G. appellante
rappresentato e difeso, come da procura a margine del ricorso in appello, dall’avv. W.L., elettivamente domiciliato in Roma, via (…), nello studio del difensore;
A.E. appellata e appellante incidentale
rappresentata e difesa, come da procura a margine della comparsa di costituzione e risposta del presente grado, dagli avv. G.G. e M.D., elettivamente domiciliata in Roma, via (…), nello studio dei difensori;
con la partecipazione del P.G. in sede che ha chiesto la conferma della sentenza appellata, conclusioni delle parti all’udienza del 24.5.20 12: i procuratori delle parti si riportano alle conclusioni in atti e chiedono che la causa venga posta in decisione.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale di Roma ha pronunciato la separazione tra i coniugi, sposatisi il 4/10/2003, dichiarandola addebitabile al marito; ha affidato le figlie minori, Federica e Vittoria, nate rispettivamente il 17.6.2004 e il 10.6.2005, congiuntamente ai genitori con collocazione residenziale presso la madre e con facoltà per il padre di vederle e tenerle con sé secondo tempi e modalità specificamente indicate; ha assegnato la casa coniugale, in Roma, via (…), alla moglie; fermo per il passato quanto provvisoriamente stabilito, ha determinato, a decorrere dal mese di giugno 2009, in Euro 800,00 mensili, oltre rivalutazione annuale Istat, il contributo al mantenimento delle figlie dovuto dal padre; ha posto a carico del padre in misura pari al 50% le spese mediche specialistiche, le spese della scuola privata sino alla conclusione del ciclo della scuola materna di entrambe le figlie, le spese per un’attività sportiva per ciascuna figlia da effettuarsi a partire dall’inizio del ciclo elementare nonché le ulteriori spese straordinarie previamente concordate; ha compensato le spese di lite per la metà tra le parti, condannando il P. a rimborsare alla A. la restante metà liquidata in Euro 2.500,00 oltre accessori di legge. Con ricorso depositato in data 5 luglio 2010 il P. ha proposto appello avverso la sentenza chiedendo, in riforma della stessa, revocare la pronuncia di addebito della separazione, disponendo la restituzione delle spese legali liquidate in primo grado a favore dell’appellata con conseguente condanna della medesima al pagamento della complessiva somma, da lui già corrisposta in sede di esecuzione, di Euro 3.550,00 oltre interessi come per legge; modificare, in considerazione delle sue mutate esigenze lavorative, le modalità di frequentazione tra padre e figlie come specificamente indicato, confermando nel resto il provvedimento impugnato; con vittoria di spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio.
Deduce che la sentenza è ingiusta per quanto riguarda la statuizione sull’addebito in quanto infondata.
Rappresenta che sin da ottobre 2002 e, quindi, ben prima del matrimonio lui, in quanto militare di carriera, ricopriva il ruolo di Sottotenente di Vascello presso la Capitaneria di Porto di Portoferraio, in località isola d’Elba. La moglie, dunque, sapeva perfettamente sia il tipo di lavoro svolto dal marito sia la particolarità che l’impiego nelle forze armate comportava. Dopo il matrimonio la moglie riteneva di non seguire il marito all’isola d’Elba decidendo di stabilirsi in Roma in un appartamento di proprietà dei genitori, confidando in un trasferimento del marito. Detto trasferimento, sebbene richiesto con due istanze il 19/4/2004 e il 23/12/2004 gli era stato negato, ottenendolo solo nel 2006, nelle more del giudizio di primo grado.
Rappresenta che la casa coniugale, oltre ad essere di proprietà della famiglia della moglie, si trovava anche nello stesso quartiere ove abitavano i suoceri. Alla nascita della prima figlia la moglie decideva di lasciare la casa coniugale e di trasferirsi definitivamente dalla madre. Tale scelta, sebbene comprensibile, aveva determinato lo stravolgimento della vita coniugale atteso che quando lui rientrava a Roma, nei weekend e in occasione dei permessi, non aveva la possibilità di stare da solo con la sua famiglia dovendo condividere l’abitazione dei suoceri salvo poi pernottare, per assenza di spazio, da solo nella casa coniugale. Proprio tale situazione determinava nel tempo l’insorgere di una serie di incomprensioni tra i coniugi generando frequenti discussioni che avevano inesorabilmente portato gli stessi ad allontanarsi l’uno dall’altra compromettendo definitivamente ed irrimediabilmente l’affectio coniugalis.
Precisa che, se tale era la situazione di fatto in cui la crisi coniugale era maturata, le ragioni del progressivo logoramento andavano ricercate, comunque, nelle profonde differenze caratteriali dei coniugi che con la nascita delle due figlie e l’oggettiva impossibilità di costituire un nucleo familiare stabile avevano finito per amplificarsi.
Osserva che nel giudizio di primo grado sono state documentate una pluralità di situazioni nelle quali la moglie non ha perso occasione per rimproverare il marito per la sua presunta incapacità a gestire le bambine. Era costantemente accusato di non essere una persona responsabile, di non avere la capacità per accudire le figlie e gestire le loro più elementari esigenze, di essere un padre assente perché viveva di fatto lontano dalla famiglia.
Richiama sul punto un’infinita serie di lettere scritte dalla moglie al marito contenenti tali ingiustificate e immotivate accuse, un memoriale scritto dalla stessa appellata – allegato numero 17 al fascicolo di primo grado – con ulteriori e infondate accuse tutte contestate dall’appellante e sulle quali non è stata ammessa alcuna prova orale con la conseguenza della loro ininfluenza per stabilire di chi fossero le colpe del fallimento del matrimonio. Tuttavia le stesse lettere evidenziano come profonda fosse la crisi coniugale e come questa fosse percepita dalla moglie come insanabile ed irreversibile. Tali scritti dimostrano che, come da lui sostenuto, la decisione di restare a Roma fu adottata unilateralmente dalla moglie, che la stessa viveva con i genitori e il marito, durante i suoi rientri nei fine settimana, viveva da solo nella casa coniugale. Negli stessi scritti emerge l’attaccamento morboso della moglie ai propri genitori, la sua convinzione di essere l’unica in grado di accudire le figlie e, ben più grave, il suo profondo disprezzo per il marito, maturato sin dal primo giorno di matrimonio e cresciuto nei mesi successivi.
Fa presente che tale atteggiamento della moglie aveva finito per determinare lo schieramento dell’intera famiglia contro di lui, culminato in data 28 giugno 2005 in un’aggressione che lui stesso aveva subito ad opera della suocera, che arrivava al punto di chiudere a chiave la porta d’ingresso dell’abitazione per impedirgli di uscire per una passeggiata sotto casa con la figlia di un anno.
A differenza di quanto sostenuto dal tribunale, il fatto che la profonda crisi avesse determinato entrambi i coniugi a separarsi è provato dalla decisione contestuale di entrambi di presentare due distinti ricorsi poi riuniti. Dunque non un’iniziativa autonomamente presa dal marito ma un’iniziativa presa da entrambi i coniugi con la presentazione di ricorsi a distanza di una settimana l’uno dall’altro.
Fa presente che nei nove mesi successivi alla nascita della seconda figlia sono stati fatti vari tentativi per recuperare il matrimonio tentativi che, però, erano risultati del tutto vani. Ritiene che, contrariamente a quanto sostenuto nulla possa rimproverarsi a chi, costretto a lavorare ad oltre 350 km da casa, assicurava la sua presenza tutti i fine settimana preoccupandosi di garantire sempre alla moglie e alle figlie, anche quando la crisi coniugale era in piena evoluzione, il suo apporto fisico e morale subendo il comportamento della moglie e neomamma che si rifiutava di trascorrere perfino l’estate nel suo luogo di lavoro, nonostante l’isola d’Elba sia notoriamente una rinomata località di vacanza, vedendosi costretto a dividere con i suoceri anche quei pochi giorni che era a Roma e che poteva, invece, trascorrere insieme alla sua famiglia.
Con riferimento alle frequentazioni con le figlie rappresenta le sue mutate condizioni di lavoro e la conseguente necessità di rivedere le modalità di visita con le bambine, tenuto conto che con provvedimento del 4/5/2010 il Comando Generale della Capitaneria di Porto aveva disposto il suo trasferimento, con effetto da settembre, da Fiumicino a Cetraro (Vibo Valentia) con conseguente impossibilità per lui di osservare le modalità di frequentazione stabilite nella sentenza impugnata.
Si è costituita l’appellata chiedendo il rigetto dell’atto d’appello in quanto infondato in fatto in diritto, con conseguente conferma della pronuncia di addebito, rimettendosi alla corte per le modalità di visita delle figlie minori da parte del padre, tenuto conto delle esigenze e degli impegni scolastici ed extrascolastici delle bambine; in via incidentale chiede porsi a carico dell’appellante la somma mensile di Euro 500,00 a titolo di assegno di mantenimento per la moglie, fermo restando la corresponsione dell’assegno di Euro 800,00 per il mantenimento delle figlie; con vittoria di spese, diritti di ed onorari di lite oltre accessori di legge.
Ritiene che la vicenda personale dei coniugi sia stata attentamente valutata dal tribunale che ha fondato il proprio convincimento su un’attenta valutazione sia della documentazione di causa sia delle dichiarazioni delle parti.
Assume che, come bene dà conto la sentenza, il conflitto tra coniugi è connesso alla mancanza di apporto morale e materiale del marito alla famiglia, divenuta impegnativa con la nascita di due bambine, a distanza di un anno l’una dall’altra, il cui onere di accudimento è gravato unicamente sulla madre e su di lei genitori.
Fa presente di aver mantenuto il suo domicilio a Roma perché ivi svolgeva la sua attività lavorativa nella convinzione che il marito avrebbe ottenuto un trasferimento vicino a Roma, come lo stesso le aveva sempre assicurato. Il suo lavoro lontano da Roma, i due periodi di maternità e la nascita delle figlie avevano diradato molto gli incontri tra i coniugi anche per lo scarso impegno dell’appellante, facendo insorgere tra gli stessi notevoli incomprensioni nonché creando problemi di rapporti anche con i suoi genitori, che si erano fatti carico degli oneri morali e materiali conseguenti alla nascita delle bambine. Il marito, a fronte delle rimostranze dei suoceri, li ingiuriava pesantemente e questo era l’unico motivo per cui sorgeva il rapporto conflittuale tra genero e suoceri. A tanto, poi, si aggiungeva il distacco affettivo e sentimentale da parte del marito che, probabilmente, già prima del matrimonio, non nutriva un reale sentimento avendo lei scoperto, in epoca immediatamente successiva al matrimonio, la frequentazione da parte del predetto di siti Internet per cuori solitari, per stringere conoscenze con ragazze straniere. Le due nascite a breve distanza, la cessazione della convivenza di fatto già dalla seconda gravidanza e l’assenza di aiuto nell’accudimento dei figli da parte del marito l’avevano determinata a trasferirsi presso i genitori tanto più che la piccola V. aveva concreti problemi di salute e necessitava di cure costanti.
Nega che il marito trascorresse tutti i weekend a Roma, cosa che era accaduta solo nei primi due mesi di matrimonio mentre in seguito inventava scuse per non farvi più rientro. Non aveva mai concretamente contribuito ai bisogni della famiglia tanto che tutte le bollette e la spesa le pagava lei, lavorando fino all’ottavo mese di gravidanza. Aveva dovuto rivolgersi suoi genitori anche per sopperire alle più basilari esigenze economiche e il 28 giugno del 2005 vi era stata sì un’aggressione verbale ma da parte del marito verso i suoi genitori che lo avevano richiamato agli obblighi familiari che fino a quel giorno erano stati da lui ignorati.
Fa presente che in merito alla residenza familiare vi era l’accordo dei coniugi, a fronte della certezza manifestata dal marito di un suo trasferimento nonché per consentire a lei di continuare a svolgere l’attività di impiegata presso una ditta privata.
Dunque, a base dell’addebito è solo il palese disinteresse il marito per la famiglia, per la moglie e per le figlie minori, come appurato dal giudice di primo grado anche all’esito dei diversi liberi interrogatori.
Quanto alla richiesta in via incidentale di un assegno per sé osserva che proprio per l’esigenza di soddisfare le esigenze di vita delle bambine, tra le quali quella di avere presente una madre in salute ed efficiente, come il tribunale ha ribadito, non potendo ulteriormente gravare sui propri genitori, ha dovuto rinunciare al lavoro a tempo pieno anche in ragione del fatto che una babysitter avrebbe comportato l’esborso praticamente simile a quanto dalla stessa percepito a titolo di stipendio. Il marito, dal canto suo, ha ottenuto l’incarico di Comandante di Capitaneria realizzando, allo scatto di livello, un incremento sostanziale del proprio reddito con l’assegnazione anche di un appartamento demaniale così vivendo in totale agiatezza tanto che aveva acquistato una nuova vettura di grossa cilindrata, come da visura del PRA prodotta.
Precisa di aver presentato domanda per incarichi di supplenza presso gli asili nido del Comune di Roma, avendo un diploma di istituto magistrale, ma ad oggi non dispone di redditi adeguati in quanto ha prestato attività di supplente ma senza redditi certi e sufficienti a garantirle autonomia. Tanto fonderebbe il diritto di ottenere dal marito un congruo assegno di mantenimento, commisurato al tenore di vita che i coniugi avevano durante la convivenza, non essendo a lei addebitabile la separazione, sollecitandone la determinazione in Euro 500,00 mensili.
All’udienza del 21/4/2011 la corte, dato atto della concorde volontà delle parti per una diversa modalità di frequentazione tra il padre e le figlie rispetto a quanto stabilito in sentenza, disponeva che il padre avrebbe tenuto con sé le due figlie il primo e il terzo fine settimana di ogni mese dal venerdì dalle 18.00 alla domenica alle 19.00, confermando i tempi di visite prescritti per le vacanze estive e i periodi festivi. Alla stessa udienza veniva richiesto alle parti il deposito di documentazione aggiornata, relativa all’ultimo triennio, sulle condizioni rispettive economiche e patrimoniali. Quindi, all’udienza del 24/5/20 12, sulle conclusioni delle parti come riportate in epigrafe, la corte ha riservato la causa per la decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Ritiene la Corte di dover accogliere l’appello proposto con riferimento alla pronuncia di addebito della separazione al marito non sussistendone i presupposti di legge.
Va, al riguardo, osservato che, per costante giurisprudenza di legittimità, in tema di separazione personale dei coniugi la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l’articolo 143 c.c. pone a carico dei coniugi essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale della determinazione della crisi coniugale ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza Pertanto, in caso di mancato raggiungimento della prova che il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio, tenuto da uno dei coniugi o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza deve essere pronunciata la separazione senza addebito.
Dunque, ai fini della addebitabili della separazione deve esistere un nesso di causalità tra i comportamenti addebitabili al coniuge e il determinarsi dell’intolleranza alla convivenza restando irrilevanti comportamenti successivi al determinarsi ditale situazione.
Compito del giudice, quindi, ai fini della pronuncia richiesta, è di accertare che la crisi coniugale sia ricollegabile al comportamento oggettivamente trasgressivo di uno o di entrambi i coniugi e che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati e il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza, condizione per la pronuncia di separazione. Occorre, allora, verificare se il comportamento censurato non sia solo l’effetto di una frattura coniugale già verificatasi e possa, pertanto, considerarsi relativamente giustificato. Eventuali violazione dei doveri coniugali dovranno, in tal caso, essere giudicati irrilevanti ai fini della addebitabilità. Tanto premesso, ritiene la Corte che le risultanze in atti non consentano di affermare che la separazione possa essere addebitata all’appellante.
Si osserva, infatti, che l’estrema brevità del matrimonio, nonostante la nascita dei due figlie, per di più svoltosi con le modalità emerse, induce a ritenere che una vera e propria comunione coniugale non si sia mai realizzata, dovendo piuttosto propendersi per una sostanziale incompatibilità tra i due coniugi che, in realtà, forse tali non sono mai stati per non avere mai sostanzialmente vissuto insieme, per non avere mai creato, nonostante le bambine, un vero nucleo familiare, autonomo rispetto alla famiglia di origine dell’appellata, sempre presente nella vita della giovane coppia, impropriamente “sostituendosi” a quello che viene rappresentato come un marito e un padre assente e incapace di gestire la sua famiglia ma che, invece, appare piuttosto un marito e un padre esautorato, allontanato e colpevolizzato di una situazione voluta soprattutto dall’appellata, che sin dall’inizio della vita matrimoniale non ha saputo e voluto fare a meno dei genitori, ai quali si è completamente appoggiata per la cura e la crescita delle bambine senza fare nulla per tentare di creare, neanche nei weekend in cui il marito tornava a Roma, un ambiente coniugale che tale potesse intendersi.
Non ha smentito, infatti, l’appellata quanto dedotto dal P. in relazione ai suoi solitari weekend notturni nella casa coniugale, dopo aver trascorso l’intera giornata a casa dei suoceri, ove la moglie, per sua stessa ammissione, si era trasferita, per poi andare a dormire, da solo, nell’abitazione coniugale.
Non è neanche specificamente smentita l’allegazione dell’appellante di aver la moglie persino scelto di non recarsi all’isola d’Elba, dove lui risiedeva per ragioni di lavoro, neanche nel periodo estivo per stare insieme al marito, ciò nonostante l’indubbia appetibilità della meta.
Dunque, in una tale situazione pare addirittura impossibile poter parlare di “affectio coniugalis” e di rottura di una comunione spirituale e materiale di coppia che, in realtà, sembra non essersi mai realizzata.
Le documentate e continue lamentele, accuse e recriminazioni dell’appellata nonostante la breve durata del matrimonio, la consentita intrusione familiare che ha di fatto “escluso” il marito e padre dalla sua famiglia, la perenne presenza dei suoceri nella quotidianità del nuovo nucleo, suoceri che si sono di fatto “impossessati” di moglie e figlie per poi accusare il P. di assenza e incapacità, la mancanza di desiderio di intimità col marito della A., che non ha mai sentito l’esigenza di trascorrere, da sola con lui, nella casa coniugale, neanche i fine settimana, sono tutte circostanze che depongono per l’impossibilità di un addebito a chi non ha mai avuto la concreta possibilità di “costruirsi” una famiglia, di imparare a gestire le sue bambine, di crescere con loro e anche di responsabilizzarsi rispetto a moglie e figlie. Né certamente può a questi imputarsi di avere, disertato da un certo momento in poi l’abitazione dei suoceri, comportamento giustificato dalle descritte condotte invasive, tenuto conto che, peraltro, quella non era la “sua” casa coniugale e se la moglie avesse avuto veramente interesse al marito e al matrimonio avrebbe dovuto non solo comprendere ma anche condividere quell’esigenza di intimità familiare e di condivisione di coppia che è irrinunciabile condizione di ogni unione coniugale che tale possa definirsi.
A tanto deve aggiungersi, poi, che la lontananza del luogo di lavoro del marito era ben nota alla A. e che certamente alcun “addebito” può farsi a questi del mancato trasferimento, decisione certamente non dipesa da sua colpa. E pure anche questo viene imputato all’appellante senza, peraltro, provare e offrire di provare concretamente che le sue assenze non fossero giustificate dalle esigenze di lavoro, non deponendo certo a favore della tesi difensiva dell’interessata i suoi scritti, che offrono all’evidenza una lettura di parte della vicenda.
Quindi, va sottolineata l’assoluta carenza di elementi probatori in ordine alla riconducibilità della separazione alle dedotte e non dimostrate violazioni, da parte del marito, dei doveri nascenti dal matrimonio, prova che, per quanto sopra premesso, deve riguardare non solo le condotte specifiche ma anche la loro rilevanza causale.
Quanto, poi, alle frequentazioni del padre con le figlie le modifiche sollecitate sono senz’altro accoglibili considerata la lontananza dell’attuale sede di lavoro dell’appellante e, del resto, già sono state modificate, in via provvisoria, nel corso del giudizio sul manifestato accordo delle parti. Pertanto, in riforma della sentenza sul punto, va disposto che il P. possa vedere e tenere con sé le figlie il 1 e 3 fine settimana di ogni mese, dalle ore 18.00 del venerdì alle ore 19,00 della domenica, dovendo confermarsi le ulteriori prescrizioni per le vacanze estive e i periodi festivi.
Quanto alla richiesta incidentale di carattere economico devono pienamente condividersi le valutazioni del Tribunale. Va premesso che la disposizione dell’articolo 156 codice civile stabilisce che il giudice, pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto necessario suo mantenimento qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L’entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle sostanze e ai redditi dell’obbligato. Tuttavia, tale disposizione deve essere rettamente interpretata: per determinare l’entità dell’assegno di mantenimento in favore del coniuge deve tenersi conto anche della capacità di lavoro, non solo del reddito dichiarato o documentato; e non solo della capacità di lavoro del coniuge beneficiario, ma anche di quello obbligato, obbligato appunto a non accomodarsi ad un’intensità di lavoro, e quindi capacità di reddito, ordinariamente accolta e sostenuta, ma di attivarsi per provvedere alla novella situazione e di garantire al coniuge (cui non sia addebitata la separazione) se non un reddito elevato, quanto meno un minimo vitale. Così la giurisprudenza più recente della suprema corte di cassazione laddove precisa che “in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento valutabile ai fini della determinazione della misura dell’assegno di mantenimento da parte del giudice; misura che deve, al riguardo, tenere conto non solo dei redditi in denaro, ma anche di ogni utilità o capacità dei coniugi suscettibile di valutazione economica”. Peraltro, l’attitudine del coniuge al lavoro assume in tal caso rilievo solo se venga riscontrata in termini di effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale ed ambientale, e non già di mere valutazioni astratte ed ipotetiche – cassazione civile 2006 n. 18547 -. Si osserva ancora che la valutazione della capacità economica di ciascuno, separato o divorziato, deve essere effettuata considerando la complessiva consistenza del patrimonio di ciascuno di essi, quale espressa da ogni forma di reddito od utilità, e quindi anche del valore intrinseco di beni immobili, siano essi direttamente abitati o diversamente utilizzati – vedi Cass. civ. sezione I, 21/1/1995 n. 706; 3/7/99 n. 6872 -.
Inoltre, per costante giurisprudenza di legittimità, le dichiarazioni dei redditi dell’obbligato, in quanto svolgono una funzione tipicamente fiscale, non rivestono, in una controversia, relativa a rapporti estranei al sistema tributario, concernente l’attribuzione o la quantificazione dell’assegno di mantenimento, valore vincolante per il giudice, il quale nella sua valutazione discrezionale, ben può fondare il suo convincimento su altre risultanze probatorie – vedi cassazione civile sezione prima 12 giugno 2006, numero 13592 -.
Tanto premesso, ai fini della condivisione della decisione va senz’altro valorizzata la capacità reddituale dell’appellata, che svolgeva attività lavorativa con i rispettabili introiti documentati per il passato, attività abbandonata nel corso del giudizio di primo grado, nonostante le bambine frequentassero il nido e la scuola materna privata e nonostante la costante disponibilità di aiuto da parte dei suoi genitori che, come già detto, l’hanno sempre supportata nella cura e nell’accudimento delle minori e non si sarebbero certo sottratti in caso di necessità. Tale essendo la situazione è certamente non giustificato l’abbandono volontario di un lavoro, che consentiva all’A. un reddito di tutto rispetto, abbandono, peraltro, avvenuto in costanza di giudizio di separazione quando proprio la nuova situazione, con le inevitabili ricadute economiche, avrebbero dovuto consigliare all’appellata maggiore oculatezza nelle sue decisioni. A tanto deve, comunque, aggiungersi che la predetta non ha spese abitative, avendo da sempre a propria disposizione l’uso gratuito di un appartamento di proprietà dei suoi genitori e, comunque, non sembra neanche priva di mezzi economici come le rilevanti giacenze sul conto corrente postale e su quello bancario consentono di apprezzare, conti che, infatti, presentano rilevanti saldi positivi nonostante la dichiarata assenza di redditi – vedi documentazione depositata: conto corrente. postale alla data del 30/12/2009 saldo Euro 5.361,38; al 30.6.2010 di Euro 8.830,35; al 30.9.2010 di Euro 8.940,55; al 30/12/2010 di Euro 8.393,98; al 30/3/2011 di Euro 11.802,49; al 30/9/2011 di Euro 13.618,79; al 30/12/2011 di Euro 16.509,27; conto corrente bancario: saldo al 30.6.2008 di Euro 19.215,55; al 31/12/2008 di Euro 19.017,16; al 31/3/2009 di Euro 18.994,45; al 30/9/2009 di Euro 18.949,05; al 31/12/2009 di Euro 18.426,35; al 31/3/2010 di Euro 19.155,96; al 31/12/2010 di Euro 19.353,22; al 3 1/3/2011 di Euro 17.331,81; al 30/6/2011 di Euro 17.929,39; al 3 1/12/2011 di Euro 20.417,56 -. Tanto fa ritenere che la predetta abbia adeguate fonti di reddito che le consentono di provvedere agevolmente al proprio mantenimento con i margini di risparmio di cui sono prova i saldi dei suoi conti correnti. Né a diverse conclusioni, quanto alla riconoscibilità di un assegno di mantenimento a suo favore, portano le considerazioni in ordine al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, tenuto conto che alcuna prova sul punto è stata offerta e che la stessa appellata ha dichiarato di aver fatto fronte alle spese della famiglia con i suoi redditi e con l’aiuto dei genitori.
La natura e l’esito della controversia giustifica, in riforma della sentenza di primo grado, la compensazione integrale tra le parti delle spese di giudizio di primo grado mentre l’accoglimento dell’appello comporta la condanna dell’appellata, soccombente anche sulle domande incidentali, alla rifusione delle spese processuali di questo grado in favore dell’appellante, spese che si liquidano come da dispositivo. La presente pronuncia sarà titolo per il recupero delle spese eventualmente già corrisposte dall’appellante in esecuzione della pronuncia di primo grado in questa sede riformata.
P.Q.M.
definitivamente pronunciando sull’appello proposto da P.G. nonché sull’appello incidentale proposto da A.E. avverso la sentenza n. 868 del Tribunale di Roma emessa il 12.6.2009 e depositata il 15.1.2010, ogni altra istanza ed eccezione disattesa, così provvede: in accoglimento dell’appello principale e in riforma della sentenza impugnata, revoca la dichiarazione di addebito della separazione al marito, dispone che P. possa tenere con sé le due figlie il primo e il terzo fine settimana di ogni mese dalle ore 18.00 del venerdì alle ore 19.00 della domenica alle 19.00, confermando la sentenza impugnata quanto ai tempi di visite previsti per le vacanze estive e per i periodi festivi; rigetta l’appello incidentale; in riforma della sentenza appellata, compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di primo grado; condanna l’A. alla rifusione, in favore del P., delle spese processuali del presente grado di giudizio, spese che liquida in complessivi Euro 3.900,00 di cui Euro 1.100,00 per diritti, oltre spese generali al 12,5%, i.v.a. e c.a. come per legge.
Così deciso in Roma il 27 giugno 2012.
Depositata in Cancelleria l’11 ottobre 2012.