Cassazione civile , sez. III, sentenza 02.11.2010 n° 22267

La permanenza di un’iscrizione ipotecaria poi risultata illegittima rappresenta un’ipotesi di cd. danno evento cui sono riconducibili altri danni cd. conseguenza e che si concretizzano sia se il titolare del bene ipotecato abbia perso varie occasioni di vendere tale bene ritenuto non appetibile dagli acquirenti, sia se il medesimo non riesca a commerciare il bene o sia costretto a subire una diminuzione delle utilitates che avrebbe potuto conseguire se il bene fosse stato libero. (Nel caso di specie, si è concretizzato un danno conseguenza derivante dalla mancata cancellazione dell’iscrizione ipotecaria, tenuto conto che parte resistente non aveva potuto realizzare il prezzo di vendita del bene ipotecato nella sua integralità, giacchè l’acquirente aveva preteso che parte di esso non fosse dalla stessa acquisito se non condizionatamente alla cancellazione dell’ipoteca).

La permanenza di un’iscrizione ipotecaria, sebbene dichiarata illegittima per il venir meno della causa di iscrizione, rappresenta pur sempre una situazione pregiudizievole per il titolare del bene ipotecato. Quest’ultimo, infatti, pur potendo opporre il venire meno del titolo in base al quale la predetta garanzia era stata iscritta, a causa della permanenza della relativa iscrizione, verrebbe a trovarsi, in ordine alla libera ed agevole commerciabilità dei beni, in una situazione potenzialmente dannosa nella quale potrebbe essere costretto a dover dare dimostrazione al terzo interessato all’acquisto del bene ipotecato della caducazione della causa giustificativa dell’ipoteca. Ne consegue che il predetto soggetto ha l’interesse ad agire per la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria anche nell’ipotesi in cui, avendo venduto il bene oggetto di ipoteca, si sia impegnato nei confronti del terzo acquirente ad ottenere la predetta cancellazione.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Presidente

 

Dott. PETTI Giovanni Battista – Consigliere

 

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere

 

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere

 

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere

 

ha pronunciato la seguente:

 

sentenza

 

sul ricorso 10368/2006 proposto da:

 

V.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PROPERZIO 27, presso lo studio dell’avvocato PAPASODARO ROSARINA, rappresentato e difeso dagli avvocati V.P. difensore di sè medesimo, PRINCIPE CLAUDIO giusta procura speciale del Dott. Notaio ATTILIO GASPARINI in PIETRA LIGURE 13/9/2010, REP. 9787;

 

– ricorrente –

 

contro

 

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da sè medesimo;

 

POSTE ITALIANE SPA (OMISSIS) in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE EUROPA 175, presso lo studio dell’avvocato URSINO ANNA MARIA, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

 

G.C., elettivamente domiciliata in ROMA presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato BRUNO FRANCESCO giusta delega in calce al controricorso;

 

– controricorrente –

 

avverso la sentenza n. 1089/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, 1′ SEZIONE CIVILE, emessa il 9/11/2005, depositata il 07/12/2005, R.G.N. 1646/2004;

 

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/09/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

 

udito l’Avvocato CLAUDIO PRINCIPE;

 

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso con condanna alle spese.

 

Motivi della decisione

p.1. Con il primo dei tre motivi riguardanti espressamente solo la G., si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., ed omesso, insufficiente e contraddittorio motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

 

Vi si censura la sentenza impugnata per avere “riconosciuto la legittimazione attiva di G.C. alla domanda di cancellazione dell’iscrizione ipotecaria” effettuata dal V. sull’immobile poi alienato a C.P.. La Corte avrebbe motivato dando rilievo al fatto che la G. sarebbe stata tenuta per legge e per contratto nei confronti dell’acquirente a garantire il C. per l’iscrizione ed avrebbe dato rilievo al rischio a cui il C. era oggettivamente esposto. Senonchè, non avrebbe considerato che l’ipoteca non avrebbe potuto essere azionata perchè il titolo sulla base del quale era stata iscritta era venuto meno, onde non ricorreva “il caso della evizione ex art. 1482 c.c., comma 3, in relazione all’art. 2866 c.c.”, e, d’altro canto, non sarebbe stato considerato che il C. ben sapeva al momento dell’acquisto dell’esistenza dell’ipoteca. Inoltre, lo stesso V. si era detto disponibile alla cancellazione, ma a spese della G. e su tale ultimo aspetto la Corte territoriale avrebbe parlato di “accollo del tutto ingiustificato delle relative spese della G.”, dimenticando che detto accollo era giustificato dall’uso non legittimo delle notizie di cui al fax che aveva consentito la proposizione del ricorso per cassazione. p.1.1. Il motivo è privo di fondamento.

 

Va premesso che esso, quanto alla denuncia di violazione dell’art. 100 c.p.c., non contiene alcuna espressa deduzione volta ad evidenziare come e perchè detta norma sarebbe stata violata, ed in particolare, non argomenta come e perchè l’estinzione dell’ipoteca – conseguente, com’è di tutta evidenza, automaticamente ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 2, – alla cassazione senza rinvio della sentenza d’appello sulla base della quale era stata iscritta e, quindi, l’esistenza di una situazione per cui si era verificata una fattispecie di caducazione del titolo in base al quale l’ipoteca era stata iscritta, potesse escludere l’interesse della G. ad agire in giudizio per ottenere l’accertamento di tale situazione e, quindi, il provvedimento giudiziale con cui fosse ordinata la cancellazione.

 

Le argomentazioni con cui il motivo è illustrato, non espressamente contenenti argomenti dimostrativi della violazione dell’art. 100, ove intese come rivolte a questo scopo implicitamente, sono prive di pregio.

 

Al riguardo, si rileva che l’esistenza della iscrizione nonostante il venir meno della causa della iscrizione è situazione di per sè pregiudizievole (in termini Cass. n. 4126 del 1956) anzitutto per il soggetto titolare della proprietà del bene ipotecato, il quale, se in concreto è nella condizione di poter opporre il venir meno della causa giustificativa dell’ipoteca, tuttavia, sotto il profilo della libera ed agevole commerciabilità del bene si trova, per effetto della permanenza della cancellazione, in una situazione potenzialmente pregiudizievole per l’incomodo rappresentato dal dover dare dimostrazione al terzo interessato all’acquisto del venir meno della causa giustificativa dell’ipoteca.

 

Ove, poi, il titolare della proprietà del bene ipotecato abbia acquistato quest’ultimo consapevolmente nel corso del giudizio in cui si è formato contro il suo dante causa il titolo giudiziale che ha giustificato l’iscrizione (come nella specie), l’interesse del detto dante causa ad agire per la cancellazione in difetto di consenso del creditore ipotecario una volta venuto meno quel titolo si può configurare se egli si è impegnato nei confronti dell’acquirente ad ottenere la cancellazione.

 

Ora, è lo stesso ricorrente alla pagina tre del ricorso a riferire che nell’atto di vendita del bene ipotecato le parti avevano stabilito che al prezzo venisse (si tratta di passo riportato fra virgolette) “dedotta la somma di L. 17.000.000 (diciassettemilioni) che sarà versata a titolo di deposito fiduciario a me Notaio, a garanzia della cancellazione dell’ipoteca giudiziale di cui sopra”.

 

Ciò evidenzia che la G. aveva assunto l’obbligazione di provvedere alla cancellazione e che fino al suo adempimento la somma oggetto del deposito fiduciario non sarebbe stata riscuotibile. Da tanto discende con tutta evidenza l’interesse ad agire della G. e tanto sarebbe bastato alla Corte territoriale per giustificare la reiezione del motivo di appello sul punto.

 

La motivazione della sentenza impugnata, là dove fa leva sulla garanzia incombente sulla G. “per legge e per contratto” riferendola al rischio che l’acquirente si trovasse esposto alla soggezione alla garanzia ipotecaria dovrebbe, a tutto voler concedere, essere soltanto corretta nei sensi appena indicati.

 

Peraltro, se si da rilievo alla circostanza che alla pagina sette la sentenza, nel riferire dello svolgimento processuale, dice nel quartultimo e terzultimo rigo che il deposito fiduciario era stato previsto a garanzia della “cancellazione dell’iscrizione ipotecaria”, risulta di tutta evidenza che, avendo la G. consentito l’ipoteca a garanzia della cancellazione, della realizzazione di questo risultato si era assunta l’onere. Da qui l’irrilevanza del solo fatto del venir meno della causa giustificativa dell’iscrizione, occorrendo che la G. prestasse l’attività diretta alla cancellazione. p.1.2. Quanto al vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’illustrazione del motivo non contiene alcunchè che concerna la ricostruzione della c.d. quaestio facti.

 

E’ poi appena il caso di precisare che alla deduzione della disponibilità del V. ad assentire alla cancellazione a spese della G. non si fa seguire alcuna critica alla sentenza impugnata. E ciò, in disparte ogni rilievo sul fondamento di questa pretesa.

 

2. Con il secondo motivo relativo alla G. si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c., nonchè dell’art. 1224 c.c., dell’art. 1227 c.c., comma 2, anche in relazione all’art. 2043 c.c., e all’art. 112 c.p.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

 

Il motivo si riferisce alla domanda della G. “di risarcimento danni da imprudente iscrizione ipotecaria”. il motivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è inammissibile, perchè, pur evocando chiaramente distinte censure, siccome evidenzia l’indicazione della violazione di diverse norme di diritto, fra cui due processuali e tre sostanziali, nella successiva attività di illustrazione svolge considerazioni su parti della motivazione della sentenza impugnate senza raccordarle in alcun modo con le norme di cui denuncia la violazione e, quindi, senza dimostrare perchè la sentenza impugnata avrebbe violato ciascuna di esse, così lasciando a questa Corte questo compito, il che – oltre a non escludere fraintendimenti rispetto all’intenzione del ricorrente – è del tutto contrario alla logica del ricorso per cassazione, che impone al ricorrente che deduca la violazione di norme di diritto di argomentare perchè esse siano state violate, il che impone che, se è stata denunciata nell’indicazione del motivo, la violazione di più norme, l’attività dimostrativa con cui si articola l’illustrazione del motivo rechi i riferimenti alle norme stesse.

 

P.2.1. Ora, l’illustrazione del motivo contiene soltanto in chiusura un riferimento normativo alla disposizione dell’art. 1227 c.c., comma 2, che assume violata là dove la Corte territoriale ha ritenuto, con riferimento alla domanda della G. relativa al risarcimento del danno per la mancata utilizzazione della somma depositata a mani del notaio rogante l’atto, che “la relativamente modesta entità della somma stessa non consente di prospettare una possibilità concreta di utile (ma non rischioso) investimento”. p.2.1. Questa censura è ammissibile.

 

Essa è, tuttavia, infondata. Si articola, infatti, nell’assunto che un utile investimento della somma sarebbe potuto avvenire in titoli di stato o con un deposito in un libretto postale fruttifero e che tale comportamento sarebbe stata esigibile con l’ordinaria diligenza da parte della G. quale condotta diretta a limitare il danno.

 

Ebbene, questa deduzione non evidenzia in alcun modo un comportamento della G., quale creditrice, riconducibile all’ambito dell’art. 1227 c.c., comma 2.

 

Questa norma, infatti, a differenza di quella del comma 1, non si riferisce alla fattispecie integrativa del danno, cioè alla verificazione del c.d. danno evento, quale elemento che, unitamente alla condotta, determina la fattispecie di illecito contrattuale od extracontrattuale. Si riferisce, invece, al c.d. danno conseguenza, cioè a quel danno che, in dipendenza causale dalla verificazione dell’intera fattispecie costitutiva dell’illecito contrattuale od extracontrattuale e, quindi, del danno evento, si verifica sempre sul piano causale come ulteriore conseguenza dannosa e cui sostanzialmente allude l’art. 1223 c.c., (norma richiamata dall’art. 2056 c.c.). L’art. 1127 c.c., comma 2, ipotizza che il creditore avrebbe potuto evitare tale danno conseguenza usando l’ordinaria diligenza, cioè intervenendo con un suo comportamento sulla serie causale. p.2.2. Applicando tali principi al caso dell’iscrizione di ipoteca giudiziale che, in ragione dell’esito della lite, si sia poi rivelata non solo illegittima, proprio per l’esito del giudizio, ma anche imprudente, siccome esige l’art. 96 c.p.c., comma 2, e, quindi, sostanzialmente riconducibile all’ambito della fattispecie di responsabilità di cui all’art. 2043 c.c., (e sul punto della configurabilità di tale responsabilità, l’esito dello scrutinio delle altre censure, non consente alcun apprezzamento a questa Corte), si ha che il danno evento è rappresentato dal limite alla commerciabilità del bene ipotecato (e, quindi, ad una possibile utilitas ritraibile dal bene), che discende dalla presenza del vincolo ipotecario e, quindi, dalla corrispondente limitazione del contenuto del diritto sul bene derivante dalla sua soggezione alla garanzia.

 

Ove risulti accertata la illegittimità dell’iscrizione e, quindi, venga meno la sua fattispecie costitutiva, si deve rilevare anzitutto che tale danno evento non risulta automaticamente eliminato, perchè, se è vero che dal punto di vista del proprietario del bene ipotecato, è possibile far valere il venir meno di quella fattispecie, finchè dura la presenza dell’iscrizione ipotecaria, sussiste – come del resto s’è già adombrato in sede di esame del primo motivo – una situazione apparente che può creare difficoltà alla commerciabilità del bene, sia scongiurando eventuali proposte di acquisto di terzi sia imponendo un onere di dimostrazione al terzo che voglia acquistare il bene o un diritto su di esso che l’ipoteca non ha più effettività. Ne discende che la permanenza dell’iscrizione pur dopo che sia acclarata l’insussistenza della sua fattispecie costituiva rende ancora configurabile il danno evento derivante da essa e semmai si tratta di valutare se in concreto si sono prodotti danni conseguenza successivamente (situazione questa a suo tempo considerata da un lontano precedente di questa Corte (Cass. n. 1346 del 1967).

 

L’esistenza dell’iscrizione fino a quando non ne sia accertata l’illegittimità e, quindi, venga conclamato il venir meno della fattispecie costitutiva, integra a maggior ragione una situazione dannosa costituente danno evento in ragione dell’indicata limitazione alla commerciabilità.

 

In dipendenza del danno evento costituito dalla permanenza dell’iscrizione che poi sia risultata illegittima, danni risarcibili sub specie di danno c.d. conseguenza originante dalla situazione costituente il danno evento, si possono verificare tanto se si perde una o più occasioni di commerciare il bene (perchè il possibile acquirente non stima conveniente acquistare il bene), sia se il bene si riesca a commerciare e, tuttavia, subendo una qualche diminuzione delle utilitates che si sarebbero conseguite se il bene fosse stato libero, cioè conseguendo una diminuzione del prezzo o conseguendo un prezzo vile, oppure un qualche diverso pregiudizio. Quest’ultima è la situazione verificatasi nella specie, in cui il bene è stato commerciato dalla G., ma la medesima non ha potuto realizzarne il prezzo nella sua integralità, in quanto l’acquirente ha evidentemente preteso che parte di esso non fosse acquisito dalla G. se non condizionatamente alla cancellazione dell’ipoteca. La mancata disponibilità di questa parte del prezzo costituisce, dunque, senza dubbio un danno conseguenza risarcibile alla G..

 

Il modo in cui si è realizzata tale indisponibilità, cioè l’essere rimasta la parte del prezzo in custodia del notaio, si vorrebbe, però, nella specie da parte del ricorrente che si stato tale da elidere il danno conseguenza da indisponibilità di quella somma, rivendicato dalla G. sotto il profilo della sua fruttuosità.

 

Senonchè, si deve rilevare innanzitutto che l’esistenza di ipotetiche modalità alternative di realizzazione della indisponibilità comporterebbe il venir meno, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 2, non già del danno nella sua interezza, bensì soltanto di quella parte che avrebbe potuto essere evitata con la modalità alternativa. Ne discende che l’ipotesi formulata dal ricorrente, cioè di un impiego della somma in buoni del tesoro o in deposito postale o in altre simili, potrebbe determinare, in quanto non realizzata dalla creditrice G., l’esistenza di un danno non risarcibile integralmente alla medesima per l’indisponibilità della somma solo se fosse dimostrato che quelle modalità di impiego avrebbero assicurato quella stessa utilitas che si sarebbe potuta realizzare con la sua disponibilità immediata. Onde, la prospettiva dell’eliminazione totale del danno conseguenza sarebbe stata solo eventuale.

 

In disparte questo rilievo, nella specie la vicenda non si presta, però, ad essere sussunta sotto il paradigma normativo dell’art. 1227 c.c., comma 2. Quest’ultimo, quando dice che il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza allude ad un comportamento del creditore che, secondo il criterio di buona fede, si sarebbe potuto tenere per impedire che, quale conseguenza causale del danno evento, si verificasse il danno conseguenza. E’ noto che, secondo la giurisprudenza di questa Corte tale comportamento si identifica in uno sforzo diretto ad evitare tale danno attraverso un’agevole attività personale, o mediante un sacrificio economico relativamente lieve e non invece in attività che siano gravose o eccezionali o tali da comportare notevoli rischi o rilevanti sacrifici (ex multis, Cass. n. 2855 del 2205). Essenziale è tuttavia che il comportamento la cui mancata tenuta esclude la risarcibilità del danno conseguenza sia un comportamento da tenersi unilateralmente da parte del creditore. Il comportamento rilevante ai sensi e per gli effetti dell’art. 1227 c.c., comma 2, non può essere un comportamento che implichi non solo l’agire del creditore, ma anche una cooperazione per il conseguimento del risultato di un terzo sulla cui tenuta il creditore non ha alcun potere nè impositivo nè di induzione attraverso un sacrifico economico lieve.

 

Ora, nel caso di specie, essendo l’accantonamento della parte di prezzo derivato da un accordo con l’acquirente e dovendosi ritenere che anche la modalità di esso sia stata oggetto di tale accordo, non è dato comprendere come le modalità alternative di impiego della somma ipotizzate dal V. possano essere sussunte come possibili comportamenti di attivazione doverosa per evitare il danno. Non si tratta, cioè di comportamenti che poteva tenere di sua iniziativa la G., ma semmai essi si sarebbero potuti tenere se vi fosse stato accordo dell’acquirente. Essi, pertanto, non sono sussumibili sotto l’ambito dell’art. 1227 c.c., comma 2.

 

D’altro canto, se si ipotizza che, una volta divenuta concreta la possibilità di vendere il bene ipotecato e raggiunto l’accordo con l’acquirente per la stipula dell’atto alla condizione che essa non acquisisse la disponibilità di parte del prezzo, la G. avrebbe dovuto almeno prospettare all’acquirente la possibilità di creare il vincolo di indisponibilità in modo da assicurare la fruttuosità della relativa somma, risulta evidente che una modalità di impiego della somma come quella ipotizzata dal V. avrebbe richiesto, comunque, il concorso della volontà dell’acquirente. E dunque sempre al di fuori dell’ambito dell’art. 1227 c.c., comma 2, si rimane.

 

Nè – lo si rileva ad abundantiam, poichè non è stato nemmeno allegato – un comportamento non conforme alla diligenza ordinaria della G. si potrebbe identificare nel non avere essa nemmeno prospettato alla controparte il possibile impiego alternativo della somma: sarebbe occorso, per potersi considerare il comportamento idoneo ad evitare il danno, dimostrare che l’acquirente sarebbe stato consenziente ed il relativo onere sarebbe stato del V.. E l’onere di allegazione e dimostrazione sarebbe stato di costui, posto che incombe al debitore eccepire e provare la situazione di cui all’art. 1227 c.c., comma 2.

 

Si può ancora rilevare, per mera completezza espositiva, che, nel caso di assenso dell’acquirente, eventuali modalità alternative avrebbero richiesto che qualcuno di fiducia delle parti contraenti, se del caso il notaio, assumesse l’incarico della realizzazione delle modalità di impiego fruttifero delle somme e ciò avrebbe richiesto una spesa e, quindi, avrebbe aumentato il danno. Non solo: entrambe le modalità ipotizzate e particolarmente l’accensione di b.o.t. (che avviene secondo aste periodiche e per tagli predefiniti in prima battuta) avrebbero richiesto del tempo e non sarebbero state realizzabile nella stessa contestualità della conclusione del contratto. p.2.3. La censura, dunque, sulla base delle complessive considerazioni svolte dev’essere rigettata, con implicita correzione sul punto della motivazione della sentenza impugnata.

 

3. Con il primo motivo fatto valere sia contro la G. che il B., si lamenta “violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

 

Si tratta di motivo che riguarda la domanda di risarcimento danni formulata in via riconvenzionale dal V. contro i predetti in relazione all’utilizzazione delle informazioni e delle notizie di cui al fax con cui era stata trasmessa al B. la documentazione relativa alla notificazione dell’atto di appello nella causa per le prestazioni professionali poi decisa in via definitiva dalla sentenza di questa Corte.

 

Il motivo appare inammissibile per un duplice ordine di ragioni.

 

In primo luogo, perchè nella sua illustrazione non si spiega in alcun modo come e perchè l’art. 2043 c.c., sarebbe stato violato dalla Corte territoriale, ma si enunciano, con riferimento ad una serie di passi della motivazione, si enunciano dissensi che non sono espressi in alcun modo con considerazioni giuridiche dimostrative della violazione della norma e che, del resto, non concernendo la ricostruzione della quaestio facti, sono inidonee ad integrare il vizio ai sensi del n. 5 c.p.c..

 

In secondo luogo e, quand’anche – del tutto al di fuori della logica dei poteri della Corte – il Collegio procedesse a dare alle considerazioni svolte dal ricorrente un qualche rilievo in funzione della denunciata violazione dell’art. 2043 c.c., il motivo appare privo di pertinenza con l’effettiva ratio decidendi (e perciò inammissibile: in termini Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi) della sentenza impugnata sul punto, la quale è incentrata sul rilievo che, ove pure l’utilizzazione della documentazione inviata non fosse stata lecita, il relativo comportamento non aveva avuto efficienza causale sulla sorte del giudizio introdotto dall’Avvocato V., perchè la proposizione del ricorso per cassazione con la deduzione del vizio della notificazione dell’appello sarebbe potuta avvenire comunque sulla base dell’acquisizione delle emergenze della notificazione stessa aliunde, circostanza che la Corte territoriale, dice condivisa dallo stesso V., riportando un passo fra virgolette delle deduzioni del V. (p. 22 della sentenza). In sostanza, come emerge dalla pagina 22 della sentenza, l’azione riconvenzionale del V. è stata respinta perchè la Corte territoriale non ha ravvisato nel comportamento tenuto dal B. un’efficacia causativa del preteso danno lamentato dal V..

 

Questa motivazione doveva il V. criticare e dimostrarne l’idoneità a violare l’art. 2043 c.c., la cui fattispecie attribuisce il diritto che contempla non già in quanto si sia verificato un comportamento illecito (contra jus), ma in quanto esso abbia determinato un danno (c.d. danno evento). Nella specie la Corte genovese ha rigettato la domanda perchè ha ritenuto assorbente che il comportamento non aveva causato il danno, in quanto l’Avvocato B., quale legale della G., avrebbe potuto comunque acquisire le emergenze della notificazione dell’atto di appello e articolare su di esse il ricorso per cassazione.

 

Il ricorrente non ha, dunque, percepito l’effettività della motivazione dell’impugnata sentenza e pretende di discutere di un profilo, l’essere stato o meno il comportamento illecito, che non ha costituito la ratio decidendi. Il motivo è, pertanto, privo di aderenza alla motivazione e, per ciò, inammissibile (Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi). p.4. Il secondo motivo comune alla G. ed al B. – denunciante “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto relativo al rigetto di prova testimoniale” – è anch’esso inammissibile, perchè prospetta l’omesso esame di un motivo di appello inerente la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di primo grado, ma lo fa con riferimento ad una prova – di cui riproduce la capitolazione – diretta a dimostrare che l’Avvocato V. aveva raccomandato il carattere riservato della documentazione inviata. In tal modo il ricorrente non avverte che l’omesso esame è stato determinato dalla ritenuta irrilevanza ai fini della reiezione della domanda risarcitoria della questione della riservatezza della documentazione, o meglio del carattere illecito della sua utilizzazione. Irrilevanza dipesa dall’essere stato comunque il relativo comportamento inidoneo a determinare danno, per come rilevato a proposito del motivo precedente. p.5. Il terzo motivo sempre comune alla G. e al B. lamenta “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia” e si duole sia che la Corte territoriale, pur avendo parzialmente riformato la sentenza di primo grado, non abbia compensato anche solo in parte la statuzione sulle spese della sentenza di primo grado a favore della G. e del B., sia che non abbia dato risposta alla contestazione sull’eccessività della relativa liquidazione.

 

Quanto al primo aspetto, il motivo non si fa carico del fatto che la sentenza impugnata ha motivato il rifiuto di compensare in tutto od in parte le spese a seguito della riforma della sentenza di primo grado, adducendo il carattere minimale dell’accoglimento dell’appello, motivazione questa pienamente rispondente ai criteri giuridici che debbono guidare l’uso del potere di compensazione.

 

Quanto al secondo aspetto, la sentenza ha ravvisato che la contestazione svolta con il motivo di appello sull’eccessività delle spese era generica (p. 30) e lo ha fatto riproducendo il relativo passo dell’appello, del resto riprodotto nello stesso ricorso dal ricorrente. Onde, ha nella sostanza ravvisato la violazione dell’art. 342 c.p.c., cosa di cui il motivo qui prospettato – con altrettale genericità ed apoditticità – non si fa carico. p.6. Con l’unico motivo prospettato contro la s.p.a. Poste Italiane si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, anche in relazione all’art. 1218 c.c., e all’art. 2043 c.c., nonchè in relazione all’art. 2697 c.c., ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

 

Il motivo pertiene al rigetto della domanda proposta dal V. nei confronti delle Poste Italiane sia sotto un profilo di garanzia impropria rispetto alle pretese della G., sia sotto il profilo del risarcimento del danno, anche se non si dice espressamente se ci si intenda riferire ad entrambi i profili oppure ad uno di essi.

 

Il motivo è anzitutto inammissibile, perchè sul punto la motivazione della sentenza – che a quel che sembra pare avere esaminato congiuntamente i due profili suddetti – si fonda su due autonome rationes decidendi: l’una fondata sull’essere stato l’esito del ricorso per cassazione, conseguente alla nullità della notificazione della sentenza impugnata ed assunto come fattispecie determinativa del danno, del tutto indipendente dal comportamento delle Poste, concretatosi, tramite l’ufficiale postale, nell’esecuzione di una notificazione dell’atto di appello nulla (per la verità inesistente secondo la sentenza di questa Corte, che il Collegio può senza dubbio esaminare, trattandosi di atto ufficiale inserito nei propri archivi e pubblico); l’altro rappresentato dall’affermazione, svolta alla pagina 28 nel punto 7.2. che, quando pure il comportamento delle Poste avesse avuto una qualche efficienza causale per l’esito del ricorso per cassazione, restava del tutto indimostrato che, qualora l’atto di appello fosse stato notificato correttamente – e, quindi, non lo si dice, ma appare implicito nel ragionamento della Corte territoriale, il contraddittorio fosse stato attivato nei confronti della G. – l’esito dell’appello nella causa introdotta dall’Avvocato V. sarebbe stato favorevole a lui e, dunque, la perdita sofferta per l’esito dannoso di conferma della sentenza di primo grado scaturita dalla cassazione senza rinvio non si sarebbe verificato comunque.

 

Ebbene, nè nell’illustrazione del motivo, nè aliunde il ricorrente ha impugnato questa seconda ratio decidendi, giusta o ingiusta che sia. Si essa, pertanto, la sentenza impugnata è passata in cosa giudicata. Viene allora in rilevo il principio di diritto secondo cui “Allorquando la sentenza assoggettata ad impugnazione sia fondata su due diverse rationes decidendi, idonee entrambe a giustificarne autonomamente le statuizioni, la circostanza che l’impugnazione sia rivolta soltanto contro una di esse, e non attinga l’altra, determina una situazione nella quale il giudice dell’impugnazione (ove naturalmente non sussistano altre ragioni di rito ostative all’esame nel merito dell’impugnazione) deve prendere atto che la sentenza, in quanto fondata sulla ratio decidendi non criticata dall’impugnazione, è passata in cosa giudicata e desumere, pertanto, che l’impugnazione non è ammissibile per l’esistenza del giudicato, piuttosto che per carenza di interesse”. (Cass. 14740 del 2005). Oppure il principio di diritto che riconduce l’analoga situazione con lo stesso effetto alla carenza di interesse (fra tante Cass. n. 20118 del 2006).

 

Per mera completezza il Collegio osserva che la stessa impugnazione della prima ratio decidendi, se fosse stata scrutinabile, avrebbe evidenziato la manifesta infondatezza della censura: infatti, contrariamente a quello che asserisce il ricorrente interpretando la motivazione, la sentenza impugnata non ha svolto affatto un ragionamento con cui ha fatto applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, e ne ha negato l’adeguatezza al caso concreto, ma ha svolto un ragionamento che ha escluso implicitamente il rilievo di quella norma, perchè ha considerato che il comportamento delle Poste e, quindi, l’esecuzione della notificazione dell’appello in modo viziato, sono rimati privi di rilevanza causale sull’esito del ricorso per cassazione, avendo assunto rilevanza causale esclusiva esclusivamente il comportamento dell’Avvocato V., che nell’espletamento del suo mandato professionale e con una diligenza espressione “di un livello minimo di cultura e di esperienza professionale” avrebbe dovuto controllare la ritualità della notificazione dell’appello e procedere alla rinnovazione della notificazione.

 

Ora, nell’illustrazione del motivo non si spiega in alcun modo come e perchè tale ragionamento seguito dalla Corte territoriale sia giuridicamente inesatto ed anzi si postula genericamente che della nullità della notificazione il V. non si sarebbe potuto accorgere dato che non se ne accorse nemmeno il Tribunale di Savona giudice d’appello. Il che è rilievo del tutto incongruo, là dove evidenzia soltanto che semmai quel giudice sarebbe stato a sua volta negligente non diversamente dallo stesso V. (come non manca di notare la sentenza impugnata).

 

Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile. p.7. Il ricorso è conclusivamente rigettato.

 

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano a favore di ciascuno dei resistenti nel dispositivo.

 

 

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore di ciascuno delle parti resistenti, delle spese del giudizio di cassazione, liquidate a favore di ognuna in Euro duemilasettecento, di cui duecento per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge.

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