Le cooperative edilizie perseguono lo scopo di costruire alloggi e di assegnarli dapprima in godimento e poi in proprietà individuale ai soci. Nell’attuare tale oggetto sociale, la previsione di spazi deputati al godimento comune dei soci è più o meno necessitata dalla natura stessa del corpo di fabbrica realizzato e dall’applicazione ad esso dell’art. 1117 c.c. in tema di parti comuni dell’edificio; ma rientra in ogni caso nella discrezionalità dell’ente individuarli e delimitarli, e così ampliare o ridurre corrispondentemente aree e volumi destinati all’assegnazione in proprietà singola, contemperando fra loro gli interessi individuali e collettivi dei soci.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 8 gennaio – 24 marzo 2014, n. 6882
Presidente Oddo – Relatore Manna
Svolgimento del processo
M.M.R. , comproprietaria per successione ereditaria di un appartamento sito in (OMISSIS) , realizzato dalla cooperativa edilizia CEPIS – Cooperativa edilizia pensionati e impiegati statali a r.l., agiva in giudizio nei confronti di G.T. , proprietaria di altro alloggio, ubicato al piano rialzato del medesimo stabile, affinché fosse dichiarato inefficace l’atto notaio Triola del 9.1.1975 col quale la cooperativa aveva assegnato alla G. un giardinetto sito innanzi al lato nord dell’alloggio di lei. A sostegno della domanda deduceva che la cooperativa, con una delibera del 1955, aveva stabilito che agli appartamenti al piano rialzato, tra cui quello poi assegnato alla G. , sarebbe stata annessa una porzione di terreno antistante agli stessi, purché detti alloggi non fossero risultati all’esito della costruzione ad un’altezza superiore a tre metri dal piano di campagna. Nonostante l’unità immobiliare della convenuta fosse risultata oltre tale altezza, la cooperativa, con altra delibera dell’assemblea adottata il 22.6.1973, aveva previsto che all’appartamento della G. fosse attribuito il giardinetto latistante, incorporato mediante una soletta poggiata su appositi pilastri in c.a. già esistenti. Precisava, quindi, che con l’atto notaio Triola del 9.1.1975, successivo a quello di assegnazione dell’alloggio effettuato in favore del proprio dante causa, la cooperativa cedendo (anche) il giardinetto alla G. aveva disposto di un bene che in realtà doveva considerarsi comune, in pregiudizio di tutti gli altri soci.
Nel resistere in giudizio la convenuta deduceva che l’attrice non aveva impugnato la delibera 22.6.1973 con la quale la cooperativa aveva disposto l’assegnazione del giardinetto, il cui trasferimento in suo favore non era pertanto contestabile.
La domanda era respinta dal Tribunale di Napoli, con sentenza poi confermata dalla Corte d’appello.
Proposto ricorso per cassazione, questa Corte dichiarava la nullità del giudizio di merito in quanto svolto senza che fosse stata evocata in giudizio la cooperativa CEPIS.
Riassunto il giudizio, senza che la cooperativa si costituisse, la domanda era dapprima accolta dal Tribunale e poi nuovamente respinta dalla Corte d’appello, con sentenza n. 2729/07. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, la Corte partenopea escludeva che il giardino in questione fosse mai divenuto pertinenza del fabbricato condominiale. L’opposta volontà della cooperativa, infatti, era stata già espressa con la delibera del 1955, che sia pure a certe condizioni aveva previsto che il giardino fosse lasciato in proprietà esclusiva dei proprietari degli appartamenti del piano rialzato. Per la formazione di un nesso pertinenziale mancava comunque un atto di destinazione, e inoltre il giardino non aveva caratteristiche tali da renderlo necessario all’uso comune, il che escludeva la presunzione di appartenenza comune ai condomini ai sensi dell’art. 1117 c.c.. Quindi, rilevava che la delibera del 22.6.1973 non poteva ritenersi nulla, ai sensi dell’art. 2379 c.c., non essendo il suo oggetto né impossibile né illecito. In particolare, l’illiceità per contrarietà all’interesse generale dei soci era da escludere in quanto configurabile solo nel caso di deviazione dallo scopo essenziale del rapporto societario, mentre l’assegnazione del giardino ad un socio non si poneva in conflitto con lo scopo dell’assegnazione degli alloggi ai soci. Di conseguenza, non essendo nulla detta delibera – mai impugnata dal socio dissenziente M.N. , dante causa di M.M.R. – non poteva ritenersi nullo l’acquisto del giardino da parte della G. . Non solo, ma diveniva altresì irrilevante la circostanza che si fosse verificata o non la condizione apposta dalla delibera del 1955, ossia che gli alloggi al piano rialzato fossero risultati ad un’altezza non superiore a tre metri dal piano di campagna, atteso che la delibera del 1973 costituiva una nuova e diversa manifestazione di volontà della cooperativa (non senza osservare, infine, che la minima differenza di quota rilevata, di appena 13 cm., ben poteva essere derivata dalla giacitura non perfettamente pianeggiante del terreno e dall’esecuzione dei pilastri in cemento armato su cui la G. era stata autorizzata a poggiare la passerella di collegamento del suo alloggio col giardino).
Per la cassazione di tale sentenza D.B.A. e F. , quali procuratori generali della madre, M.M.R. , propongono ricorso in base a tre motivi, seguiti da memoria.
Resiste con controricorso G.T. .
La cooperativa CEPIS è rimasta intimata.
La parte ricorrente all’esito della discussione ha presentato osservazioni scritte sulle conclusioni del P.G..
Motivi della decisione
1. – Col primo motivo d’impugnazione è dedotta la violazione degli artt. 2697 e 2909 c.c., 112, 324, 342, 346 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c..
Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello avrebbe delibato la natura pertinenziale o non del giardino oggetto del contendere, nonostante il giudicato interno affermativo formatosi al riguardo e la relativa eccezione sollevata dalla parte odierna ricorrente nel giudizio di secondo grado.
Formula al riguardo i seguenti quesiti di diritto ex art. 366-bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie: “dica la S.C. se, sollevata dalla parte specifica eccezione di giudicato interno su di una questione, inerente un punto decisivo del tema processuale, ex adverso tuttavia non posta negli specifici motivi d’appello e toccata solo in conclusionale, la Corte di merito non violi il disposto dell’art. 112 c.p.c., incorrendo nel vizio di nullità della sentenza di cui all’art. 360, n. 4, allorquando delibi la questione stessa, omettendo ogni disamina dell’eccezione pregiudiziale di rito al riguardo effettuata; dica, in particolare, la S.C. se, eccepita da parte della M. l’inammissibilità di una delibazione da parte della Corte d’appello della pertinenzialità in sé dell’area/giardino in questione, per non essere stata la cosa, in tali termini, prospettata nel motivo di gravame sollevato dalla G. , la delibazione, di converso, dalla stessa effettuata, senza minimamente valutare tale pregiudiziale obiezione posta, abbia integrato una violazione del disposto dell’art. 112 c.p.c. determinando – così – la nullità della sentenza resa; dica, altresì, codesta S.C. se, prospettata da una parte l’esistenza di un giudicato interno su di un punto rilevante e decisivo del tema processuale, non costituisca violazione degli artt. 2909 c.c., 112-324-342 e 346 c.p.c., sanzionabile ex art. 360, n. 3 c.p.c., la decisione adottata dalla stessa, pretermettendo – invece – ogni disamina al riguardo; dica, infine, codesta S.C. se, prospettata dalla M. l’esistenza di un giudicato interno in ordine alla pertinenzialità in sé, all’intero edificio ed all’origine, dell’area/giardinetto in parola, non costituisca violazione degli artt. 2909 c.c., 112-324-342 e 346 c.p.c., sanzionabile ex art. 360, n. 3 c.p.c., la decisione assunta – invece – dalla Corte di merito, pretermettendo ogni disamina al riguardo”.
2. – Il secondo motivo espone la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 817, 818, 1117,1353 e 1362 c.c. e dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c..
Parte ricorrente deduce che la Corte territoriale non ha considerato che proprio con la delibera del 1955 la cooperativa aveva “divisato” ab origine la pertinenzialità del giardino, eccetto l’unico caso che si fosse verificata la condizione ivi prevista e in realtà non occorsa, atteso che l’appartamento della G. è stato realizzato con un’altezza in eccesso di 13 cm. rispetto al limite di tre metri previsti nella delibera stessa. Con la successiva delibera del 22.6.1973 la cooperativa non solo non superò la condizione originariamente imposta, ma neppure avrebbe potuto farlo legittimamente.
A dimostrazione di ciò, prosegue parte ricorrente, il fatto che anche dopo l’atto notaio Triola del 1975, la cooperativa continuò a darsi carico della manutenzione del giardino in oggetto, come dimostrato da due ricevute di spesa che la Corte territoriale non ha esaminato.
Seguono i quesiti: “dica la S.C. se non risulti violato il canone dell’art. 115 c.p.c. in una decisione in cui sia stata pretermessa ogni disamina di documenti ritualmente affluiti in atti, inerenti un punto decisivo della controversia ed, in tali sensi, se nella specie la decisione della Corte d’appello venga ad essere strutturalmente inficiata dall’omesso esame ed – eo magis – dall’omessa valutazione in chiave probatoria del “Verbale” del 30.12.1969 di immissione della G. nell’appartamento (senza il giardino in contestazione) e delle ricevute di pagamento dell’11.12.1979 e del 2.11.1981 da parte dell’Amministrazione condominiale degli oneri di manutenzione del “giardino” in parola; dica, poi, la S.C. se in un atto giuridico, in presenza di una “condizione” apposta, l’evento condizionato possa ritenersi comunque voluto in ragione della sua mera ipnotizzazione ed indipendentemente dall’effettiva verificazione della stessa ed in tali sensi se, nello specifico del caso in esame, costituisca corretta applicazione dei canoni degli artt. 1353 e 1362 c.c. un’interpretazione della “volontà” dell’assemblea dei soci del 27.7.1955 secondo cui la mera e sola previsione di un evento condizionante la scissione del naturale vincolo pertinenziale tra l’erigendo fabbricato e l’area/giardino in questione, comportasse e dimostrasse comunque la “volontà” di escludere in ogni caso lo stesso, indipendentemente dalla sua verificazione; dica, altresì, la S.C. se in un atto giuridico, di fronte ad un’univoca “condizione” apposta e contemplata per la determinazione di uno specifico effetto negoziale, non sia assolutamente precluso all’interprete di inferirne, una volta accaduta la stessa, “l’irrilevanza” ai fini della verificazione dell’evento medesimo, così violando la volontà espressa dall’autore; dica, ancora, la S.C. se, di fronte a un dato oggettivo di prova in atti, quale una misura accertata in loco da un c.t.u., non sia da parte dell’interprete violato il canone dell’art. 115 c.p.c. il supporne ipotetiche e non dimostrate, modificazioni in chiave di azzeramento nel processo della valenza obiettiva istruttoria del dato stesso”.
3. – Col terzo motivo è dedotta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2379, 1422, 2511, 817, 1117 e 2644 c.c. e 45 Cost., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5 c.p.c..
La sottrazione della parte di giardino in questione, sostiene parte ricorrente, e la sua arbitraria assegnazione in proprietà ad uno solo dei soci, avrebbe violato il principio di parità fra i soci stessi, travalicando la natura e l’oggetto del patto sociale. Da ciò la violazione degli interessi generali dei soci e la violazione degli artt. 45 Cost. e 2511 c.c., con conseguente illiceità dell’oggetto del deliberato assembleare in contestazione, ai sensi dell’art. 2379 c.c..
Segue il quesito: “dica la S.C. se non sia nulla per illiceità dell’oggetto una delibera di società cooperativa edilizia che, oggettivamente pregiudicando quantitativamente e qualitativamente l’interesse generale dei soci alla fruizione tutti di un immobile naturalmente pertinenziale e condominiale, a maggioranza lo assegni – invece – in proprietà esclusiva ad uno solo di essi”.
4. – Quest’ultimo motivo, che va esaminato con priorità per la sua pregiudizialità logica, è infondato.
In disparte la poco corretta formulazione del quesito, in cui sono inserite, nell’erroneo presupposto che ciò valga a ipotecarne la soluzione, valutazioni in fatto non derivate dalla ricostruzione operata dalla sentenza impugnata, ma proprie della parte ricorrente e per di più erronee in diritto (sulle quali v. infra il paragrafo 4.2. che segue); ciò a parte, la censura dilata in maniera gratuita l’ambito della nullità delle delibere assembleali per illiceità dell’oggetto.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che nell’ambito dell’autonoma disciplina dell’invalidità delle deliberazioni dell’assemblea delle società per azioni – nella quale, con inversione dei principi comuni (artt. 1418, 1441 c.c.), la regola generale è quella dell’annullabilità (art. 2377 c.c.) – la previsione della nullità è limitata ai soli casi, disciplinati dall’art. 2379 c.c., di impossibilità o illiceità dell’oggetto, che ricorrono quando il contenuto della deliberazione contrasta con norme dettate a tutela degli interessi generali, che trascendono l’interesse del singolo socio, risultando dirette ad impedire deviazioni dallo scopo economico-pratico del rapporto di società (cfr. Cass. nn. 15721/05, 928/03, 14799/00, 3457/99 e 3458/93; analogamente, in motivazione, Cass. n. 16390/07).
Limitando l’esame alla sola fattispecie evocata dalla parte ricorrente, ossia la contrarietà della delibera all’interesse generale della società e al suo scopo pratico-economico, deve rilevarsi che le cooperative edilizie perseguono lo scopo di costruire alloggi e di assegnarli dapprima in godimento e poi in proprietà individuale ai soci.
Nell’attuare tale oggetto sociale, la previsione di spazi deputati al godimento comune dei soci è più o meno necessitata dalla natura stessa del corpo di fabbrica realizzato e dall’applicazione ad esso dell’art. 1117 c.c. in tema di parti comuni dell’edificio; ma rientra in ogni caso nella discrezionalità dell’ente individuarli e delimitarli, e così ampliare o ridurre corrispondentemente aree e volumi destinati all’assegnazione in proprietà singola, contemperando fra loro gli interessi individuali e collettivi dei soci.
Non mette conto ai fini del decidere stabilire se tale potere privato esprima una discrezionalità volitiva o solo tecnica. Nell’un caso come nell’altro il potere esiste, ripete la propria fonte dal contratto sociale e, quanto all’edificio costruito dalla cooperativa, non incontra limiti ulteriori rispetto a quelli desumibili dalle norme imperative dettate nell’ambito della disciplina sul condominio. Ipotizzazione un esercizio illegittimo da parte dell’assemblea, il rimedio è, pertanto, solo l’impugnazione della delibera per annullabilità, essendo per contro esclusa quella per nullità ai sensi dell’art. 2379 c.c., che suppone statuizioni incompatibili con l’oggetto sociale.
4.1. – Traslando le considerazioni appena esposte al caso di specie, è di tutta evidenza che l’assegnazione di un’area esterna al fabbricato in favore di uno o più soci come complemento delle unità immobiliari loro singolarmente assegnate, piuttosto che la destinazione di essa al servizio o all’ornamento dell’edificio comune, esprime la normale attuazione proprio dello scopo della cooperativa edilizia.
Una tale scelta non intacca l’interesse generale dei soci, cui non compete un diritto alla massima estensione possibile delle parti comuni, né lede di per sé il principio di parità di trattamento fra loro, previsto dall’art. 2516 c.c., che si limita a dettare agli organi sociali una regola di comportamento la cui ipotetica violazione non altera il nesso fra la causa cooperativistica e quella di scambio propria del contratto di cessione dell’alloggio singolo (cfr. su quest’ultimo aspetto, Cass. n. 5724/04).
4.2. – Infine, la stessa questione della “pertinenzialità” del bene conteso dimostra da un lato l’assoluta inconsistenza della dedotta causa d’invalidità della delibera del 22.6.1973, e dall’altro la sua non inerenza a profili che involgano l’interesse generale dei soci al perseguimento dell’oggetto sociale.
Si basa su considerazioni del tutto prive di fondamento giuridico la tesi per cui l’area in questione sarebbe connotata rispetto al fabbricato comune da una “pertinenzialità originaria”, che secondo parte ricorrente sarebbe stata “divisata” (espressione ambigua e atecnica che si legge a pag. 16 del ricorso) dalla cooperativa proprio con la delibera del 27.7.1955. Delibera che pure ne aveva previsto il venir meno in favore dell’appartamento oggi di proprietà G. , ove quest’ultimo a seguito dell’edificazione fosse risultato ad un livello non superiore a tre metri rispetto alla quota del terreno adiacente.
Infatti, escluse le pertinenze pubbliche (destinate al servizio dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili) e quelle di natura privata ma aventi una destinazione di tipo pubblicistico (e perciò soltanto vincolate al bene principale), ogni pertinenza richiede un atto negoziale di destinazione ad un bene principale (art. 817, cpv. c.c.), atto che come può essere posto in essere dal proprietario o dal titolare di altro diritto reale sulla cosa principale, così può essere successivamente posto nel nulla assoggettando il bene principale e quello pertinenziale a rapporti giuridici separati (art. 818, 2 comma c.c.). Non è configurabile, pertanto, una res che sia “oggettivamente” o “naturalmente” pertinenziale, poiché la maggiore o minore sua vocazione al servizio o all’ornamento di altro bene non ne implica l’assoggettamento ipso iure al relativo regime giuridico.
Il nesso pertinenziale può essere costituito e può essere sciolto senza altro limite che quello derivante dalla volontà del titolare del bene principale, giacché l’atto di destinazione non imprime alla cosa secondaria un’indelebile qualitas iuris (cfr. sull’argomento Cass. nn. 2702/78 e 1763/66, secondo cui il regime delle pertinenze, in base al quale gli atti e i rapporti giuridici aventi a oggetto la cosa principale comprendono anche le pertinenze, non può essere utilmente invocato quando la pertinenza sia stata separata dalla cosa cui era funzionalmente legata, con un autonomo atto di disposizione). Pertanto, sostenere che la circolazione separata del bene secondario espressamente disposta dal titolare della cosa principale sia invalida in ragione della pregressa destinazione, è un non senso giuridico che contraddice frontalmente il disposto dell’art. 818, 2 comma c.c..
5. – La reiezione del terzo mezzo d’annullamento assorbe l’esame dei primi due motivi.
Esclusa la nullità della delibera del 22.6.1973, è vano stabilire se il giardino in oggetto sia stato in origine destinato al servizio del fabbricato comune o se si sia formato il giudicato interno su tale qualità asseritamente primigenia, perché detta delibera ha ad ogni modo disposto del giardino separatamente dal fabbricato comune.
6. – In conclusione il ricorso va respinto.
7. – Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alle spese, che liquida in Euro 3.700,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre IVA e CPA come per legge.