L’uso più intenso dei beni in condominio non è sufficiente ai fini dell’acquisto per usucapione
L’uso più intenso del vano d’ingresso da parte dei proprietari delle unità immobiliari ubicate al piano terra di un edificio in condominio non è di per sé idoneo a far mutare il compossesso in possesso esclusivo.
Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza 2 aprile – 4 maggio 2012, n. 6775
Presidente Felicetti – Relatore Mazzacane
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato l’11-3-1995 D.F. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Avezzano D..B. e F..C. chiedendo disporsi la cessazione delle turbative sulla porzione immobiliare costituita da un vano ingresso dell’edificio sito in (OMISSIS) , ed individuato in catasto con la particella 161, e dichiararsi il predetto vano comune alle rispettive proprietà delle parti rappresentate per l’attore dall’appartamento posto al piano primo dello stabile e per i convenuti da quello al piano terra.
Si costituivano in giudizio i convenuti deducendo l’infondatezza della domanda attrice e svolgendo domanda riconvenzionale di acquisto della proprietà esclusiva del vano predetto per intervenuta usucapione, salvo il diritto di passaggio dell’attore.
Il Tribunale adito con sentenza del 21-3-2006 rigettava la domanda del D. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale, dichiarava la B. ed il C. unici e legittimi proprietari in comunione indivisa e con pari diritti del locale in contestazione.
Proposta impugnazione da parte del D. cui resistevano il C. e la B. la Corte di Appello dell’Aquila con sentenza del 16-9-2009 ha accolto la domanda del D. e per l’effetto ha dichiarato comune alle proprietà di entrambe le parti il vano posto al piano terra ad uso ingresso con accesso da via (OMISSIS) di mq. 19, ha poi ordinato agli appellati la cessazione di ogni turbativa e molestia circa l’utilizzo del vano in questione, ed ha dichiarato interamente compensati tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.
Per la cassazione di tale sentenza F..C. e C.V. quali eredi di D..B. nel frattempo deceduta nonché F..C. in proprio hanno proposto un ricorso articolato in quattro motivi cui il D. ha resistito con controricorso introducendo altresì un ricorso incidentale basato su due motivi; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.
Motivi della decisione
preliminarmente deve procedersi alla riunione dei ricorsi in quanto proposti contro la medesima sentenza.
Venendo quindi all’esame del ricorso principale, si rileva che con il primo motivo V..C. e F..C. , deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 948 e 949 c.c., sostengono che la Corte territoriale, avendo dichiarato di proprietà comune il vano in contestazione, condannando gli appellati a cessare le molestie denunciate dal D. , ha evidentemente considerato che esse fossero idonee a menomare il godimento del bene ovvero a comportare il pericolo, nel caso di acquiescenza del titolare e del decorso del tempo, di un futuro asservimento o dell’acquisto a titolo originario del bene medesimo; in realtà le attività poste in essere dal C. e dalla B. come descritte nell’atto introdutttvo del giudizio di primo grado non potevano essere considerate delle semplici turbative di diritto o di fatto del presunto comunista, in quanto costituivano un vero e proprio spossessamento del vano adibito ad ingresso, anche se limitatamente all’area che si estendeva dall’accesso alla scala fino alla parete dell’appartamento degli attuali ricorrenti principali; ne consegue che l’azione proposta dalle controparti non si poteva qualificare come negatoria, ma come azione di rivendica in quanto tendente al recupero del possesso del bene.
I ricorrenti principali aggiungono che il giudice di appello, dopo aver contraddittoriamente ricondotto la domanda attrice nell’alveo dell’azione di rivendicazione, ha erroneamente sostenuto che il D. aveva dimostrato di aver acquisito la proprietà ed il possesso del vano in questione mediante la produzione dell’atto di compravendita del 10-5-1974; invero con tale atto l’attore aveva solo provato di essere divenuto intestatario del bene, ma non di averne acquistato la proprietà, atteso che i suoi danti causa non ne avevano mai avuto il possesso.
La censura è infondata.
La Corte territoriale ha qualificato come negatoria ex art. 949 secondo comma c.c. l’azione proposta dal D. onde far cessare le turbative da parte della B. e del C. sul vano comune alle parti per cui è causa (come emergeva dall’atto di acquisto del 10-5-1974 dell’appartamento sito al primo piano dello stabile prodotto dall’attore), avendo il D. dedotto che, nell’utilizzare tale vano nella sua interezza per accedere all’appartamento di sua proprietà posto al primo piano dell’edificio sito in (OMISSIS) , subiva da tempo molestie da parte dei convenuti che comportavano una diminuzione del suo godimento di detto bene; orbene tale qualificazione dell’azione è corretta, non avendo i ricorrenti specificato da quali elementi si sarebbe dovuto evincere che in realtà il D. avesse lamentato una privazione del suo possesso su almeno una parte del vano in questione; né d’altra parte risulta che le controparti abbiano mai sollevato tale questione, quantomeno in termini specifici, nei precedenti gradi di giudizio.
Con il secondo motivo i ricorrenti principali, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 1102 e 1158 c.c., assumono che la sentenza impugnata, riconducendo l’attività posta in essere dal C. e dalla B. nell’ambito del normale esercizio del diritto di proprietà o qualificandola come semplice turbativa dei possesso del comproprietario, ha erroneamente ritenuto non provata la domanda riconvenzionale; orbene era innegabile che i proprietari del piano terra avevano da oltre un ventennio unilateralmente modificato la destinazione dell’ingresso comune trasformandolo in un’appendice del loro appartamento ed escludendone gli altri dall’uso, come era dimostrato dal fatto che il dante causa del D. non aveva mai avuto il possesso dell’ingresso, visto che per lasciarvi il motorino aveva dovuto chiedere il permesso alla signora Ci.Gi. dante causa del C. .
La censura è infondata.
Il giudice di appello, premesso che il vano di ingresso al suddetto edificio era oggetto di compossesso da parte del D. da un lato e della B. e del C. dall’altro lato, ha escluso, sulla base delle deposizioni dei testi escussi, che questi ultimi avessero posseduto tale vano per un periodo non inferiore a venti anni in maniera esclusiva ed incompatibile con il compossesso esercitato su di esso da parte del D. , che invero vi era sempre passato per accedere all’appartamento di sua proprietà, e che nel corso di lavori di ristrutturazione del suo immobile, protrattisi per vari periodi tra il 1974 ed il 1978, lo aveva utilizzato per depositarvi materiale edile ed altro; anzi la sentenza impugnata ha evidenziato che una impossibilità di esercizio da parte del D. di un potere di fatto sul bene per cui è causa non solo non era stata provata, ma neppure era stata allegata dai convenuti, che si erano limitati ad affermare di averlo utilizzato a loro piacimento, ponendolo a servizio della loro retrostante abitazione ed occupandolo con mobili e suppellettili, senza peraltro che si fosse verificata una alterazione della sua destinazione ovvero un impedimento del suo uso da parte del compossessore; orbene alla luce di tale accertamento di fatto sorretto da congrua e logica motivazione, come tale incensurabile in questa sede, devono essere pienamente condivise le conclusioni che la Corte territoriale ne ha tratto in punto di diritto, considerato che in tema di compossesso il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei compossessori non è, di per sé, idoneo a far ritenere io stato di fatto così determinatosi funzionale all’esercizio del possesso “ad usucapionem”, risultando necessario, a tali fini, la manifestazione di un dominio esclusivo sulla cosa comune da parte dell’interessato attraverso una attività durevole, apertamente contrastante ed inoppugnabilmente incompatibile con il possesso altrui (vedi “ex multis” Cass. 20-9-2007 n. 19478), nella specie insussistente.
Con il terzo motivo i ricorrenti principali, deducendo contraddittorietà, illogicità ed insufficienza della motivazione, rilevano sotto un primo profilo che il giudice di appello ha qualificato l’azione proposta dalla controparte prima come negatoria e poi come rivendicazione, considerando pertanto le attività poste in essere dagli appellati semplici molestie e turbative e nello stesso tempo ritenendole integrare uno spossessamelo del bene comune, senza rendersi conto della differenza esistente tra le due azioni e la diversità dei presupposti e delle conseguenze che ne derivano.
Essi inoltre assumono che la Corte territoriale, pur avendo premesso che l’attore in rivendicazione è tenuto a dare la prova rigorosa dell’acquisto a titolo originario della proprietà, incoerentemente ha ritenuto assolto tale onere probatorio dal D. mediante la semplice produzione dell’atto pubblico di compravendita solo perché stipulato da oltre venti anni; evidentemente la sentenza ‘ impugnata, contrariamente alla giurisprudenza da essa stessa richiamata, ha ritenuto che la produzione dell’atto pubblico di compravendita renda irrilevante nel giudizio di rivendicazione accertare se l’attore si sia immesso nel possesso del bene acquistato oppure se il venditore al momento della stipula dell’atto pubblico ne avesse o meno il possesso.
La censura è infondata.
Premesso che, come già evidenziato in sede di esame del primo motivo del ricorso principale, il giudice di appello ha qualificato come negatoria l’azione proposta dal D. , deve ritenersi che il successivo riferimento al rigore probatorio che caratterizza l’azione di rivendicazione non è idoneo ad infirmare la precedente statuizione, atteso che subito dopo ta sentenza impugnata ha inteso richiamare il menzionato atto di compravendita del 10-5-1974 al fine di ritenere provato il contestuale acquisto, da parte del D. , del possesso del vano in questione, nel contesto delle argomentazioni svolte per escludere che l’utilizzo da parte della B. e del C. del vano stesso si fosse reso incompatibile con il compossesso dell’altro comproprietario fino ad escluderlo dal relativo godimento.
Conseguentemente, una volta escluda la configurazione dell’azione proposta dal D. quale rivendicazione, le considerazioni del ricorrente principale in ordine al rigore probatorio richiesto per l’accoglimento di tale azione, sono irrilevanti.
Con il quarto motivo i ricorrenti principali, denunciando carenza di motivazione e nullità della sentenza, rilevano che la Corte territoriale, nella parte riguardante la condanna degli appellati, non ha indicato quali fossero le turbative e le molestie dalle quali essi si sarebbero dovuti astenere; infatti il giudice di appello, dopo aver escluso che gli atti commessi dal C. e dalla B. fossero idonei a far maturare l’usucapione, ritenendoli contenuti nell’ambito dei limiti stabiliti all’art. 1102 c.c., ha condannato gli appellati a cessare le molestie e le turbative poste in essere contro i presunti diritti di comproprietà del D. senza una specifica e puntuale distinzione tra 7 attività lecite ed illecite.
La censura è infondata.
La sentenza impugnata, nell’ordinare alla B. ed al C. la cessazione di ogni turbativa e molestia circa l’utilizzo del vano in questione, ha evidentemente inteso fare riferimento a tutti quei comportamenti che ne avevano impedito, da parte del comproprietario e compossessore D. , l’uso ed il godimento nella sua interezza e secondo la sua oggettiva destinazione, e che avevano determinato l’insorgenza della presente controversia.
Il ricorso principale deve quindi essere rigettato.
Venendo quindi all’esame del ricorso incidentale, si osserva che con il primo motivo formulato il D. , denunciando violazione degli artt. 949 secondo comma e 1226 c.c., censura la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risarcimento danni proposta dall’esponente nei confronti delle controparti che, asserendo il loro esclusivo diritto di proprietà sul vano comune oggetto di giudizio, avevano ingiustamente contrastato il normale godimento del bene da parte del D. ; sussisteva quindi la prova del danno sofferto, la cui entità lo stesso D. aveva rimesso alla valutazione equitativa del giudice di merito.
La censura è fondata.
La Corte territoriale ha rigettato la sopra enunciata domanda di risarcimento sia in quanto formulata in termini generici, sia perché rimasta totalmente sprovvista di prova.
Tale convincimento non può essere condiviso.
Premesso che l’art. 949 secondo comma c.c. prevede che in presenza di turbative o molestie il proprietario può chiedere, unitamente alla cessazione di esse, anche il risarcimento del danno, è indubbio che nella specie il D. abbia subito un apprezzabile pregiudizio alla pienezza dell’uso e del godimento del suddetto vano comune per effetto delle turbative poste in essere al riguardo dalle controparti nel corso di molti anni sulla base di infondate pretese avanzate in ordine alla loro asserita proprietà esclusiva su tale bene, considerato altresì che esso, per la sua ubicazione, è destinato ad una utilizzazione frequente da parte del proprietario dell’appartamento sito al primo piano dell’edificio in questione sia per accedere all’esterno dello stabile sia per tornare nella propria abitazione; pertanto la pretesa risarcito ria avanzata dal D. non può certamente essere considerata generica.
Quanto poi alla concreta entità del danno subito, nell’impossibilità oggettiva o comunque nella particolare difficoltà, per il D. , di provarlo nel suo preciso ammontare, ricorrono i presupposti di legge ai sensi dell’art. 1226 c.c. per procedere, secondo la domanda formulata dall’attuale ricorrente incidentale, ad una valutazione equitativa dello stesso.
Con il secondo motivo il ricorrente incidentale censura fa compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, atteso che il sostanziale accoglimento della domanda avanzata dall’esponente avrebbe dovuto indurre il giudice di appello a condannare le controparti al pagamento di tali spese.
La censura resta assorbita all’esito dell’accoglimento del primo motivo del ricorso incidentale.
In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione all’accoglimento del suddetto motivo, e la causa deve essere rinviata alla Corte di Appello di Perugia anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa anche per la pronuncia sulle spese del presente giudizio alla Corte di Appello di Perugia.